UNA COSA FINALMENTE LIETA. SCRITTI CIVILI E DISCORSI POLITICI

Natalia Ginzburg, A CURA DI Michela Monferrini

Edizioni di Storia e Letteratura (2023)

È un piccolo prezioso libro, prezioso soprattutto per questi nostri tempi in cui l’idea di politica si confonde con gli slogan elettorali, con il vocìo delle piazze e la voce stentorea e quasi sempre goffa di chi ne dovrebbe trasmettere il valore.
Natalia Ginzburg è stata una scrittrice cresciuta con una sorella e tre fratelli nella casa della madre Lidia Tanzi e del padre Giuseppe Levi, grande scienziato ebreo, maestro di ben tre premi Nobel. Il clima della casa e del pensiero antifascista che vi si respirava è narrato in Lessico famigliare, il racconto che vede in scena personaggi della vita, tra cui Leone Ginzburg, amico dei fratelli e sposo di Natalia, che muore a Regina Coeli per le torture subite, nel 1944.
Conosciamo le opere letterarie, il lavoro editoriale presso Einaudi, di Natalia Ginzburg, ma raccogliere in un libretto la sua voce politica è cosa che sorprende e incanta.
Quando, nel 1983, all’età di sessantasette anni, viene invitata a entrare nelle liste elettorali della sinistra indipendente, si ritrae, convinta di non possedere una testa politica: “Esistono persone che capiscono nulla di politica. Fra queste sono io”. Solo l’intervento diretto di Nilde Iotti, che va a trovarla in via Gregoriana, nella sede romana dell’Einaudi, la convince ad accettare. È certo risuonano in lei le parole dell’ultima lettera dal carcere di Leone: sii coraggiosa.
Di politica, nel senso più nobile, si era in realtà occupata molto, prendendo posizione in momenti importanti della vita del paese, dalla legge sull’aborto, ai processi contro le Brigate Rosse, alla difesa di militanti di Potere operaio, alla condivisione con Primo Levi del documento contro l’operazione ‘Pace in Galilea’. Tuttavia la politica del ‘palazzo’ non le pare la sua e, una volta accettata e vinta l’elezione, resta in Parlamento, dal 1983 alla morte nel 1991, per non venir meno a quella che è stata la sua vita.
Interviene soltanto sei volte dal suo seggio di deputata, ma le sue parole circolano attraverso i biglietti che indirizza ai colleghi su tanti temi e sempre per difendere un diritto, un bene collettivo: il disarmo, il prezzo del pane, il costo delle case, la presenza italiana nella crisi del Golfo Persico, il reato di violenza sessuale. La sua parola è quella del pacifismo di chi si dispone a trasformare la propria vita per tener fede alle promesse del dopoguerra e al clima morale dell’Assemblea Costituente; e lo fa con il linguaggio nitido di chi conosce bene quanta truffa può celarsi nel linguaggio del potere: “C’è il pericolo di truffare con parole che non esistono davvero in noi, che abbiamo pescato a caso fuori di noi e che mettiamo insieme con destrezza perché siamo diventati piuttosto furbi”.  I colleghi dell’aula parlamentare l’ascoltavano in assoluto silenzio.
A quarant’anni di distanza quella parola pare svanita e drammaticamente perduta.

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