Apprezzo molto la collana Le mancuspie diretta da Antonio Bux: detta in tre nomi pubblicati in questi due anni una spina dorsale lucente della poesia italiana: Luciana Frezza, Giorgio Manganelli, Gino Scartaghiande. Mi interessa molto, e condivido con Bux, la necessità di fondare un solco dentro cui vertere parametri imprescindibili della poesia italiana. Spesso confusi, sommersi, dimenticati. Soprattutto, fin dalla loro apparizione originaria, eretici.  Distinguo e stimo una casa editrice quando crea vie fuori dalle seduzioni di mercato e dalla quantità, costruendo luci su opere di densità e originalità.

Paola Febbraro mi parlava di Gino Scartaghiande. Leggevamo i suoi versi. Incontrarli in questa nuova edizione mi induce senza esitazione di indicarli qui come necessari.

Non è un caso, secondo me, che la radice degli studi di Scartaghiande sorga dalla medicina. La sua attenzione al microcosmo del corpo, alla sensorialità, mantiene concretezza fortissima con un uso potente della parola mai vaporizzato in sublimata astrazione e sempre immesso in una vertiginosa consapevolezza spaziale, o meglio cosmica. Scartaghiande nomina ogni pulsione, canta il furore della sessualità, la sua dolente o gioiosa drammaticità, con nudità esemplare, scorticando retoriche, sentimentalismi. Non siamo di fronte a un io chiuso, teatralizzato, autoreferenziale, in un lirismo che torna circolarmente su se stesso. La poesia di Scartaghiande, semmai, frantumando ogni ordine, in una velocità tagliente che segna nel nitore sferzante, oltre che destabilizzante, riprende a spirale il mondo. E lo fa con un fiato politico, irruente, irriverente, libero, nel senso che volta le spalle ai canoni del mondo letterario. Cita Rosa Luxemburg e la porge con tensione esplodente.   

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