
Nel libro La strada delle annurche, Edizioni Studium, Roma 2023, Marco Rossi-Doria raccoglie, come annuncia il sottotitolo, poesie che coprono un arco temporale di quarantasette anni, dal 1973 al 2020. I dieci inchiostri di Salvatore Puglia accompagnano, con sentieri di segni, le cinque sezioni in cui si articola il volume a cui, il critico e docente universitario Franco Vitelli – curatore del volume – dona una approfondita ed illuminante prefazione che aiuta il lettore a comprendere la poetica dell’autore e il suo percorso. Notizie per il lettore e Le Note d’autore, poste all’inizio e alla fine del volume, offrono la spiegazione dei termini partenopei usati e, ulteriori, preziose, indicazioni di lettura. Vitelli accosta a Marco Rossi-Doria il poeta statunitense George Oppen, una cui citazione, posta in apertura del libro, offre una chiara indicazione della posizione scelta dall’autore. Le affinitĂ tra i due vengono così sintetizzate dal prefatore: “non si dĂ poesia a prescindere dalle cose, la poesia non ha il compito di spiegare le cose; viceversa la poesia deve mantenersi sul crinale di queste due convinzioni”. Da questa dichiarazione di poetica, da questo preciso luogo discendono, da una parte la responsabilitĂ della scrittura, che implica una costante riflessione e visione critica e, dall’altra, quel lavoro artigianale, fisico, che rende il verso il frutto autentico di quella scelta. La cura della scrittura, che dona ai versi l’essenzialitĂ di un timbro originale e riconoscibile, è il filo che innerva il suo dettato poetico e definisce la sua cifra d’autore. La dimensione dell’impegno sociale e civile in cui Marco Rossi-Doria ha profuso energie, passioni e talento- dimensione di ambiti sociali, pedagogici e istituzionali in cui ha realizzato molte ed importanti iniziative, progetti innovativi ed è diventato un punto di riferimento sia nazionale sia europeo- non si sovrappone in alcun modo con il suo percorso di ricerca poetica. Non è la poesia un altro modo per dire le stesse cose, ma un’urgenza che scaturisce dalla necessitĂ di confrontarsi con i nodi piĂą profondi dell’avventura umana e con le costellazioni di pensieri e sentimenti che, da sempre, accolgono e restituiscono l’abbraccio delle ombre e delle luci che accompagna la danza dei nostri passi.
La prima sezione del libro, Terra di nessuno, ripropone i testi della plaquette d’esordio che incontrò un immediato apprezzamento di pubblico e di critica. Reca, in esergo, una citazione del romanziere e saggista francese Maurice Blanchot “Scrivere sotto la pressione della guerra non è scrivere della guerra ma all’interno del suo orizzonte” che insieme al titolo offre una chiave di lettura- che vale per tutta la sua poesia- e l’indicazione di una posizione discosta, ma non lontana, comunque interna allo spazio di un orizzonte comune, da cui partono itinerari di osservazione e di esplorazioni alla ricerca di attraversamenti per evitare, che nei gorghi delle piccole e grandi maree, governate dalle lune delle eruzioni quotidiane della vita, parole muoiono inascoltate. Anche quelle d’amore, che rotolano, tra capelli che spiano carezze, e quelle che non giocano piĂą, ferme sul ciglio di un passo lento (che) ritira le mani dell’amante. Come una dedica e Fine, titoli della poesia che apre e di quella che chiude la sezione, fissano i punti fermi, di un orizzonte che non chiude, ma apre lo spazio agli archi delle promesse. E una promessa è anche quel patto d’amore, quella accettazione di un testimone che dal padre, con i rumori di guerra/ …sono entrati senza un attrito nei suoi occhi azzurri. Ci sono nei versi di questa sezione dei segni che rivelano appartenenze, familiaritĂ , consonanze con i lasciti della poesia greca, classica e moderna, e con quella di poeti francesi, così come la padronanza di un vero e proprio alfabeto vegetale – conoscenze costruite a fianco del padre, importante economista agrario- non descrive paesaggi ma rivela presenze che diventano luoghi che, a loro volta, accolgono altre presenze. Come quella del geco, che porta paure d’inverno/ e fortuna all’alba di giugno e, latore di questo doppio messaggio, può svelare i segreti dei morti ai vivi/. Doppio messaggio che ritorna, tra presagi di guerra e la ricerca di una sera lunga, in cui quietano le cicale/ e torna consueta la pace. Tra luoghi distrutti e abbandonati, solo un fiore, sfinito, testimonia, con la sua presenza, le altre possibilitĂ , oltre muri e lamiere.
La seconda sezione è composta da un poemetto, Laerte, che prende il titolo da una tradizione secondaria, secondo la quale, il padre di Ulisse avrebbe rinunciato a regnare su Itaca. Marco Rossi-Doria ne fa una potente metafora del potere e delle deformazioni, angustie e miserie di cui si nutre. Qui, si misurano il volo delle utopie e i crateri delle disillusioni. L’azzardo dei sogni e le sconfitte delle speranze hanno popolato mondi e riempito i cieli; dirlo chiede parole esatte, affilate, come i destini che hanno tracciato vie diverse. Franco Vitelli, che considera questa l’opera più originale e matura, sottolinea nella Prefazione la capacità dell’Autore di attuare un rinnovamento stilistico e, Cesare Garboli, rileva la contaminazione greco-napoletana del linguaggio. L’uso di diversi registri di scrittura, antica e moderna, gli echi di oralità e l’ibrido di lingua e dialetto si rivelano come necessari alla costruzione di un linguaggio/luogo, quel solo luogo capace di accogliere la flotta delle riflessioni e delle cicatrici. Un’odissea interiore, in cui le disillusioni Invece io come Elettra devo dire-/che ho visto il più della vita delusa nell’attesa,/mi mancano le forze/ si specchiano nelle correnti che tessevano sul mare. D’altra parte, se “quelli dettano le leggi/frugano nell’archivio/quelli tengono illuminate le sale degli assessori/ notte e giorno! nessun potere potrà mai imprigionare l’odore dell’acqua saponata/ che fa azzurri rivoli.
La parola Napoli compare solo nel titolo della terza sezione, Giallonapoli, anche se, come rileva ancora Franco Vitelli, questa città è la fonte primaria della sua poesia e il titolo del libro La via delle annurche ‹‹sembra indicare una sorta di via napoletana alla poesia, in chiave tuttavia universale.›› D’altra parte, a rafforzare l’idea di Napoli come un luogo universale dell’anima, soccorre la citazione di Dostoevskij, tratta dall’Idiota e posta in esergo. Il giallo di Napoli è in realtà un arcobaleno che contiene tutti i colori di tutte le parabole dell’agire umano. Come tutti colori pieni, il giallo abbaglia e nasconde e mai come qui le rivelazioni vanno cercate oltre le luci, fra le ombre e i muri, fra i volti e le mani che ascoltano, trattengono e danno parole per ogni viaggio. Nel fitto ordito dei temi si inserisce la trama delle geografie dei sentieri percorsi: dalla declinazione dei cambiamenti possibili alla scomparsa degli amici; dalla malattia alle vie impervie della guarigione, dagli approdi taglienti delle migrazioni alla memoria custodita da queste sedie/questi tavoli ammassati fuori/che è un pretesto vegliarli/per non morire ora alle donne che verranno da più lontano, e vedrai che vorranno cantare.
Nella sezione I versi d’Africa si trovano i frutti dell’esperienza di insegnante all’estero, svolta da Marco Rossi-Doria per un triennio in Kenya. L’Autore qui crea una sorta di ponte tra l’Africa e il Mezzogiorno: atmosfere arcaiche, pratiche magiche, espressione di sapienze ancestrali, fatica del vivere, fierezza della dignità . Anche qui, come in tutte le pagine del libro, le donne esprimono forza e visione particolari. Anche se intorno tutto è secco e bruciato Ma tu la donna/sguardobello,/allo stremo delle forze/camminerai davanti ai cammelli. I battiti profondi del mondo, di quel mondo, vengono raccolti da chi cammina beato/ e canta che canta/le leggi cantate, dalla figlia più giovane, gravida, che danza per la sassaia e cerca le pietre tenere, coi denti le sbriciola/senz’acqua le ingoia/Prende la gaiezza/e disfa il timore. L’arco che congiunge cielo e terra si distende dall’arboreto recintato, in cui vengono poggiati i morti, dove invocaste col fiato di una nenia/perché restituissero/almeno l’anima a voi/ alla donna, che seduta, ringrazia i luoghi e i santi;/ sia benedetta la tua voce di vecchia,/ la pacatezza ci mandi dalle stelle.
Lamento è un poemetto in 15 scene, pensato come coro per una pantomima o un balletto, non è mai stato messo in scena né pubblicato.
Una donna vaga nella città in cui in ogni atrio la gente/proclamava i re già annunziati, portando il peso di amori persi e, ubriaca, evita, per pudore, di incrociare i bambini. La città , la condizione della donna, la forza e il declino dell’amore sono i temi di fondo di questi versi.
L’ultima sezione, Sono troppi gli anni, raccoglie le poesie più recenti. Pesano le assenze Sono troppi gli anni/dalle morti e pesano gli anni dilapidati dando i giorni/agli inetti ai persi/ai senza grazia. Una malinconia soffusa, l’asprezza dei bilanci, la tenacia degli affetti, il racconto minuto delle case e degli oggetti che trattengono le memorie familiari, dispiegano un ventaglio di temi, in cui, pur nella diversità di toni rispetto alle precedenti sezioni, troviamo tutti i luoghi della sua poesia e del suo mondo.
Anche se esausti siamo/increduli di tutto e se questo tempo che fa fatica ha disperso molti doni non c’è la resa alla chiusura. Cosa volete che faccia?/Non dite nulla?/Stendo la tovaglia allora/Cucino/Apro a chi verrà /. E qualcuno verrà , magari per vie inaspettate come quando, ad una cerimonia di commemorazione del padre, a trenta anni dalla morte, dove signori che Di mio padre parlarono/che non conobbero mai/ andò via, certo della presenza al suo fianco del papà , in cerca di un posto per piangere. La donna del bar/portò il caffè/prese coraggio/prese strinse la mia mano/Fu quella la benedizione. Forse è benedizione anche il ricordo della madre. Nella poesia Era Gibilterra, che- certo non casualmente- chiude la sezione e il libro, il poeta la trova nel sogno, vestita splendente/dall’alto sul mare//che mi dice/con il dito dove guardare/ e con l’altra mano/mi ripara gli occhi/ dal sole che abbaglia. La rivelazione del mondo nel sorriso della nipote appena nata, Ti disponi tu al chiarore/che è del mondo si lega a quella dell’educazione, ai bambini appena nati a cui il maestro non insegna perché Siete voi da soli/a mutare i suoni in segno/ a portare il mondo a misura.
La poesia, in fondo è questo: l’offerta di una rivelazione, un tragitto che si può condividere, come un sogno, un pianto, una stretta di mano, un’idea dicibile di umanità , con coerenza e rispetto delle sue infinite versioni.
Marco Rossi-Doria, si chiede se ha dilapidato il dono della scrittura, Innata/venuta da un dio per giorni vissuti su ali troppo gracili per sogni così grandi. A questa domanda possiamo rispondere, da lettori, che quel dono non solo non lo ha dilapidato ma lo ha offerto, a profusione, in queste pagine. Marco Rossi-Doria, come la critica ha riconosciuto fin dal suo esordio, e queste pagine confermano, è poeta autentico e le sue parole hanno il sapore della verità perché sono vere. Per questo possiamo dire che di quei sogni il cuore non è mai perduto se, come nel suo caso, si ha il coraggio delle domande e la forza per accogliere le risposte.
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