Conosco Paolo Pistoletti: serietà, rigore, passione verticale per l’arte, cordone ombelicale con la radice terragna umbra, terra e lingua, schiettezza e umiltà, fin dentro una discrezione ritirata senza seduzioni e senza compromessi. Queste qualità costituiscono il sangue della poesia. Della sua poesia.

Dopo Legni, pubblicato con Ladolfi Editore nel 2014, a distanza di nove anni, quest’opera porge un lavoro di cesellatura finissima, complessa, che mantenendo una tensione esistenziale potente e perfettamente ritmata, si orchestra in un’architettura che lavora lo spazio e il tempo in modo lenticolare, fino all’embrione dell’io.

La versificazione innovativa di Pistoletti è la forma linguistica davvero interessante da lui raggiunta per ritrarre la drammaticità, se non la tragicità, di un io funambolo in bilico sulla soglia abissale. Viene da pensare alle figure di Giacometti. Ma è di più. Assistiamo immediatamente a un io, solo a tratti liricamente individuato, dopo scarnificazioni, erosioni, spoliazioni, che consapevolmente lo portano a un’ipersensibilità esposta ferocemente al mondo, al punto da cantarne la fugacissima pienezza e contemporaneamente l’estraneità. L’impermanenza scaglia l’attimo successivo a uno scarto temporale, spaziale, esistenziale, sociale, irreparabile. Raggiungere a ritroso quel punto luce vissuto significa riassumere, assumere in sé, le facce di infiniti specchi, quel molteplice, appunto, dentro cui sostenere il viaggio. Un viaggio di apnea, dove è improprio nominare il silenzio, Occorre, invece, indicare l’esercizio del tacere, dell’ascolto fino all’estremo biologico, della soglia così prossima al collasso.

Un viaggio assoluto nell’assoluto, quindi, dentro cui i suoni di treni, di passi, delle voci, dei fiumi, dei prati, dei nomi penetrano la porosità ferita dell’io, senza pervenire al canto della disperazione, semmai arriviamo alla conca del vuoto, in cui dimorare con oscillazione stoica.

Il pregio notevole di quest’opera è che la vertigine delle rifrazioni, i gesti del voltarsi indietro nel tempo riaffacciandosi ai volti e ai luoghi ai pensieri alle intenzioni, mai cedono al sentimentalismo. La parola è sempre lavorata con economia esatta e innovativa. Mai si cede a un’evocazione nostalgica, perché la maglia stretta e tirata del verso impone una dialettica incessante sul filo della vibrazione esistenziale riportata al qui e ora. Mai si cede a un io lirico assente dalla tragedia del mondo, mollemente decadente. Umbertide, la profonda Umbertide, incastonata nell’Appennino, ha l’argilla del suo corpo lirico.

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