L’ultima produzione poetica di Friedrich Hölderlin è parallela alla schizofrenia che, a partire dal 1806 sino al 1843 (anno in cui il grande autore tedesco muore), lo ridurrà – dopo un non breve ricovero, a Tubinga, presso la clinica del professor Autenrieth, da cui i medici lo dimetteranno quale malato incurabile – a finire rinchiuso nella cosiddetta stanza della “torre”, ospite del falegname Ernst Zimmer (lautamente rimborsato dal fratello del poeta), in cui Hölderlin sarà destinato a trascorrere i rimanenti 36 anni della propria vita. Dalla psicosi e dal suo carcere dorato, infatti, egli non si libererà più.

Ho chiamato così la stanza-prigione, ubicata nel retro a forma di torre della casa di Zimmer ed affacciata sul fiume Neckar, perché da essa – durante tutto il lunghissimo periodo di segregazione – il poeta poteva uscire di rado, appena per brevi gitarelle nei campi circostanti e solo se accompagnato. In un primo tempo gli era pur stato concesso di andare a passeggio liberamente, ma i passanti lo schernivano per la sua goffa andatura o il suo comportamento manierato e complimentoso all’eccesso e di conseguenza – come ebbe a scrivere Wilhelm Waiblinger, autore di una biografia del Nostro[1] – “Quando Hölderlin se ne accorgeva, si inferociva a tal punto da scagliare contro costoro pietre e fango”.

Senz’altro drammatica è la descrizione che Waiblinger fa dello sconcerto che i visitatori provano appena entrano nella stanza del folle. “Aperta la porta, vediamo in piedi, in mezzo alla stanza, una figura smunta che si inchina fino a terra […]. Si contempla il suo profilo, la fronte spaziosa gravida di pensieri, gli occhi belli, ma spenti, anche se non ancora inanimati; si colgono le tracce deturpanti della malattia mentale sulle sue guance, sulla bocca, sul naso, al di sopra degli occhi, dove è impresso il segno di una sofferenza opprimente, e con triste rammarico si nota il movimento convulso che di tanto in tanto si prolunga su tutto il viso, gli fa alzare le spalle e sussultare in special modo le mani e le dita”.

Via via che trascorrono gli anni, purtroppo, il degrado psichico diviene talmente grave da comportare la totale perdita del Sé. Nel frattempo il giovane Waiblinger diverrà amico (se così possiamo chiamarlo) di Hölderlin, grazie ad una assidua frequentazione del malato che il futuro biografo accompagna in lunghe peregrinazioni in campagna o lungo il fiume e talvolta invita il poeta a suonare il pianoforte (che Zimmer ha concesso di collocare nella “torre”) o a scrivere; cose che egli fa abbastanza volentieri.

Nasce forse così il ciclo delle ultime poesie hölderliniane, dette Turmgedichte (“Poesie della torre”), sulla cui pregnanza poetica/poietica permangono ancora dei giudizi contrastanti, per quanto negli ultimi decenni si stia sempre più affermando la presa d’atto del peculiare valore espressivo di tali testi, che appartengano al drammatico ultimo periodo creativo del Nostro, il quale, nonostante la schizofrenia e il degrado cognitivo ad essa conseguente, riuscì comunque a creare un’opera di tutto rispetto.

Queste liriche però, se non altro per quanto concerne la firma e la datazione,[2] restano contrassegnate dal marchio deturpante della psicosi. Inoltre la loro sintassi si fa talvolta eccentrica e in alcuni casi la strofa è a rischio d’incoerenza grammaticale; come l’ostinatezza reiterata di certe immagini può far pensare a una coazione ossessiva a ripetere. La struttura e lo stile compositivo delle Turmgedichte risultano apparentemente alquanto semplici e naif, con un ritorno all’uso della rima. Inoltre, dice bene Enzo Mandruzzato, in esse: “Sono del tutto assenti i grandi temi del passato. Anzi non vi sono temi, e neppure avvenimenti, tranne quello del ritorno delle stagioni”.[3] Tali composizioni, a prima vista, possono apparire quindi mere poesie descrittive (spesso brevi) o al più contemplative in cui l’io, tranne in un paio di occasioni, è di fatto assente o, forse meglio, dismesso/abolito. Il soggetto – impersonale −, allorché non esprima un elemento della natura (alberi, monti, fiori, campi, luce, ecc.) è qui costituito semmai dalla formula generica: “l’uomo” – “gli uomini”) (“der Mensch” – “die Menschen”).

C’è chi, a causa del loro tono lirico e a tratti orientaleggiante, ha paragonato le Turmgedichte agli Haiku giapponesi, ma io ritengo che questo accostamento sia poco appropriato, se non altro perché questi ultimi sono caratterizzati da un’assoluta concisione[4] e schematicità che troviamo assai di rado nell’ultimo Hölderlin.

Ciò che comunque sorprende in tali poesie d’estremo nitore (verrebbe pure da aggiungere subito: d’estrema bellezza) è una grande levità, il respiro musicale e placido di una versificazione sobria ma intensa, essenziale ma ricca di echi, rimandi, suggestioni. Il registro talora è oracolare, però privo di saccenza alcuna. Colpisce la pacatezza/mitezza che emerge dalle strofe. Una serenità di fondo che sconcerta, se teniamo conto dello stato patologico del Nostro. Infine la peculiare struttura metrica d’estrema semplicità, ma al contempo di notevole efficacia espressiva che denota gli ultimi testi hölderliniani, consente al poeta di comunicare senza retorica o enfasi un messaggio di ritrovata quiete che commuove e consola. Quasi l’uomo lacerato dalla schizofrenia avesse davvero raggiunto o almeno presagito la “Vollkommenheit”, la “perfezione/compiutezza” cui fa cenno l’ultima sua splendida poesia: “Die Aussicht” (“La veduta”) – firmata con lo pseudonimo Scardanelli – che chiude per sempre il canto e la vita del poeta all’insegna di una mite, inattesa illuminazione provvidenziale.

La veduta

“Quando va lontano la vita che dimora negli umani,
dove lontano splende il tempo della vite,
v’è pure accanto il campo spoglio dell’estate,
e il bosco appare con la sua immagine scura.
Che la natura completi l’immagine delle stagioni,
che lei rimanga, esse trascorron via veloci,
è per sua perfezione; allor l’alto del cielo
all’uom riluce, come la fioritura gli alberi incorona”.

il 24 maggio                                                         Con umiltà

 1748.                                                                     Scardanelli.[5]


[1] Wilhelm Waiblinger, Friedrich Hölderlin. Vita, poesia e follia, a cura di L. Reitani, trad. di E. Polledri, Adelphi, Milano 2009.

[2]  Una ventina di queste liriche sono firmate, infatti, con il nome di Scardanelli, giacché il poeta – ormai folle – negava di chiamarsi Hölderlin. Inoltre le date poste in calce alle poesie sono del tutto sballate/assurde. Si pensi solo a quella recante l’inquietante datazione 9 marzo 1940.

[3]  Tratto da: Friedrich Hölderlin, Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, pag. 77.

[4]  Ogni Haiku tradizionale giapponese è composto da tre versi che debbono comprendere un testo di 17 sillabe.

[5]  Die Aussicht ‒ Wenn in die Ferne geht der Menschen wohnend Leben, / Wo in die Ferne sich erglänzt die Zeit der Reben, / Ist auch dabei des Sommers leer Gefilde, /Der Wald erscheint mit seinem dunklen Bilde. / Daß die Natur ergänzt das Bild der Zeiten, / Daß die verweilt, sie schnell vorübergleiten, / Ist aus Vollkommenheit, des Himmels Höhe glänzet / Den Menschen dann, wie Bäume Blüth’ umkränzet ‒ d. 24 Mai 1748 ‒ Mit Untertänigkeit ‒ Scardanelli.

  1. Avatar Anna
    Anna

    Ho letto con profondo interesse, inizialmente perché calamitata dal tema, successivamente per la fluidità limpida della scrittura che fa quasi da contraltare al doloroso destino del poeta smarritosi nei meandri della follia, ma in grado di conservare fino alla fine ” un messaggio di ritrovata quiete che commuove e consola.”

  2. Avatar lucia
    lucia

    Grazie per l’avversione che ho provato per questo articolo, dovuto alla tendenza a patologizzare i diversi comportamenti umani, soprattutto di poeti e artisti .
    É stata un’occasione per attingere nuovamente dalla fonte di poeti illuminanti come Paul Celan e comprendere come a volte i poeti possano solo balbettare di fronte la società “pollaksch pollaksch”.

    1. Avatar Francesco Roat
      Francesco Roat

      Gentilissima Lucia,
      mi spiace davvero che il mio intervento su Hoelderlin – poeta che amo moltissimo e su cui ho scritto anche un saggio elogiativo, intitolato: “Il cantore folle” ed edito da Moretti&Vitali – le sia dispiaciuto. Io non intendevo affatto “patologizzare i diversi comportamenti umani”; men che meno quelli relativi ai poeti. Osservavo solo che, malgrado una malattia fortemente invalidante, Hoelderlin riuscì a comporre versi mirabili; ma non solo: io credo che egli riuscì a giungere ad un livello spirituale di magnanima accettazione della propria sofferenza interiore che fece di lui un mistico, oltre che un grande poeta.
      Abbia i miei più cordiali saluti.
      Francesco Roat

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