Viene presentato da Eugenio De Signoribus in queste parole: “In questo poemetto, che va dai toni piani ai più acuti (quasi come una voce sovrumana), Andrea Lanfranchi sembra apparecchiare tutto per la postultima cena.” Trovo che questa cerimoniale drammaticità esiste nella visione dell’intera opera. Come esiste una forza stoica nell’ entrare dentro le fessurazioni della realtà, della vita, della morte, con una lingua cruda, concreta, oggettiva. La lingua, appunto, tocca e canta senza sbilanciamenti, senza mediazione, raggiunge senza commozione estraendo l’essenza. Lanfranchi abbassa la lingua a terra, tra le mani dei pescatori i loro piedi, il loro pestare quotidiano nella morte dei pesci. Il poeta entra nella morte dei pesci, senza enfasi, nel gelo fermo della loro pupilla. Attraversa l’elementalità del silenzio nella morte, con fermezza vivissima.
Il pregio di tutto questo è il nitore della poesia di Lanfranchi, riuscito a oggettivizzare il dolore del mondo in un viaggio di terra e di acqua, senza spargimento di lacrima, corpo a corpo, nel canto.
Un’opera da salvare dal diluvio.
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