“Quale che sia il caso facciamo un’esperienza che ci apre gli occhi verso
un nuovo modo di guardare il mondo […]. Adesso vediamo limitazioni di
cui prima non avevamo consapevolezza. Torniamo ai nostri pari,
cerchiamo di comunicare la nostra esperienza, cerchiamo di spiegare che
cosa abbiamo scoperto, cosicché loro possano espandere i loro orizzonti. I
n questo processo stiamo cercando di cambiare il modo in cui la nostra
comunità definisce la competenza … stiamo usando la nostra esperienza
per trascinare la competenza della nostra comunità”.[1]
“Piuttosto che tentare di rispondere alla domanda su quale sia il tipo di
scuola che la società richiede, è bene interrogarsi su quale tipo di società
la scuola esiga per essere scuola, ovvero un’istituzione dove l’educazione
può letteralmente aver luogo”[2]
Progetto Chance, Napoli
Era il 1997. È passato oltre un quarto di secolo da quando, con il progetto Chance, di cui molto si è scritto nel tempo[3], si avviò a Napoli una scuola innovativa della seconda occasione che dava finalmente un’altra opportunità ai ragazzi cosiddetti “inadempienti all’obbligo d’istruzione”. E, nel farlo, riconosceva – a fianco all’ispirazione pedagogica delle esperienze planetarie della scuola inclusiva – la prospettiva di un’azione poliedrica e di una tenuta nel tempo, che chiamasse in causa più “culture”: pedagogica, psicologica, organizzativa, politica. Insomma, veniva finalmente riconosciuto che l’accompagnamento alla possibile “ripartenza” di adolescenti drop-out dal nostro sistema d’istruzione, che avevano abbandonato il sistema scolastico è un fenomeno complesso, che conosce un intreccio di condizionamenti sociali e culturali potenti e, al contempo, di vissuti personali di ciascuna persona che, nell’età dell’adolescenza, arrivava a lasciare la scuola. Una condizione del vivere siffatta, che riguarda centinaia di migliaia di persone nell’età della formazione, non può rappresentare una patologia ascrivibile ai soggetti che la “agiscono”. Invece si tratta – dicemmo nei mesi che istruirono il progetto, nell’inverno 1996 – della risposta politica, e socio-educativa a uno scandalo politico e sociale immane, che riguardava sia pure in forme molto diverse dal tempo di Barbiana, il perpetuarsi della “scuola di classe” a oltre 30 anni dal 1967 di Lettera a una professoressa.
A tanti anni dall’inizio di Chance tale scandalo perdura, assumendo nuove forme ancora. Ed è per questo che quel cantiere politico-educativo va ancora oggi indagato.
Con l’avvio del progetto Chance e di altre, poche analoghe esperienze di seconda opportunità veniva finalmente riconosciuto che i ragazzini e ragazzine che si rifiutavano di andare a scuola non erano “esseri patologici” bensì messaggeri profetici. Risuonava in noi un verso di Heine: Ein Bote bin Ich. Io sono un messaggero. Così, i ragazzi e le ragazze che incontrammo furono per noi segnalatori profetici dei limiti disperanti di un sistema scolastico che smentiva le sue premesse democratiche ed inclusive perché era (e rimane largamente) rigido in quanto profondamente fondato sulla mera offerta standard di istruzione, priva della capacità di incontro e di relazione che si fondi sull’”andare verso” e sulle comuni scoperte proprie di ogni processo inter-generazionale che sia davvero fondato sull’ educěre e sull’apprendere.
È per questa consapevolezza sul cosa stessimo facendo – che assumeva fin dall’inizio una ispirazione propriamente politica – che furono allestiti i dispositivi capaci di unire, appunto, più prospettive epistemologiche al fine di allestire un cantiere che fosse capace di affrontare seriamente la questione del fallimento formativo di massa in Italia, prospettando un prototipo innovativo, vivo e vivace e che, soprattutto, fosse capace di imparare a sua volta, in corso d’opera.
L’intuizione, coerente con questa impostazione fondativa, fu la scelta di riunire fin da subito un insieme di risorse professionali esperte dedicate all’impresa – legate sia a competenze pedagogiche sia a competenze psicologiche e afferenti agli studi sociali largamente intesi. Una. Scelta che non era pensata per “curare” i ragazzi uno ad uno ri-immettendoli nella scuola così com’era. Era, invece, concepita, per un verso, per coinvolgere i diversi ruoli e funzioni riunendoli entro un vero ‘coordinamento cooperativo’: docenti, educatori, conduttori di laboratori i più diversi, assistenti sociali del comune, decisori delle politiche pubbliche locali, psicologi e psicoterapeuti competenti sul piano psicoanalitico, cittadini ed esperti disposti ad allearsi con l’avventura; per altro verso, era intesa per fornire setting ben allestiti e muniti di procedure e pratiche ben sorvegliate in modo da garantire luoghi di riflessione formativa e di accompagnamento consapevole ai gruppi degli operatori adulti che lavoravano con i/le ragazzi/e e, dunque, al contesto multi-strato (lavoro in aule o nei laboratori o nello sport, vita nel quartiere, esperienze formative non scolastiche, conflitti tra ragazzi e tra questi e adulti, sistema di patti con le famiglie, etc.).
Insomma, l’ambizione – che riuscì – fu duplice. Innanzitutto fu quella di favorire una “presa in carico” promettente perché capace di fornire e manutenere un’autentica seconda occasione per ciascun/a ragazzo/a, un orizzonte di pausa e ripartenza e riscatto. Al tempo stesso, fu quella di creare un prototipo di risposta alla crisi educativa nei troppi territori poveri e fragili del sistema-Italia con un’ambizione politica, che si palesò da subito. Infatti, l’esperienza di Chance ha riportato l’azione educativa a Napoli – una città che perdeva per strada un quarto dei suoi quindicenni – nel pieno dell’azione e del dibattito, europeo e internazionale, sul dovere delle comunità nazionali di garantire effettivamente la scuola e l’apprendimento a ciascun/a ragazzo/a.
Oggi possiamo dire che compimmo una scelta di sfida, radicale. Infatti, il progetto Chance – insieme a un pugno di analoghe iniziative di seconda occasione o opportunità in giro per l’Italia[4] – non si limitava più ad offrire istruzione standard per tutti ma si proponeva di raggiungere gli adolescenti fino ad allora non raggiunti o persi lungo la via, così inverando il comma 2 dell’articolo 3 della nostra Costituzione che chiama la Repubblica a non fermarsi alla dichiarazione dell’eguaglianza bensì a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana….”
Il senso politico, culturale e sociale di quella nostra sfida fu riassunto in uno scambio epistolare che avemmo con la Presidenza della Repubblica al fine di ottenere dei computer che non riuscivamo ad avere per le vie ordinarie, che il Quirinale ci regalò. Scrivemmo: “Noi siamo la scuola pubblica italiana che si occupa, in modo nuovo, di chi è rimasto indietro, non siamo beneficenza, siamo l’avamposto dello stato”. E in una bellissima lettera che i ragazzi e le ragazze del progetto di scuola di seconda occasione di Napoli ricevettero 4 anni dopo l’avvio del progetto, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse che noi stavamo agendo nel solco della migliore tradizione meridionalista e che stavamo applicando la Costituzione nelle “zone di frontiera, dove l’emarginazione e il disagio economico e sociale sono ragione di sofferenza ma anche di coraggioso impegno civile”[5].
Anno dopo anno mettevamo insieme i numeri di questa sfida, che numeri non erano ma persone.
Il punto di partenza del progetto – la decisione politica che lo promosse e finanziò – fu un accordo tra il Ministero della Pubblica Istruzione e la Città di Napoli che lo inserì nel proprio Piano di contrasto dell’esclusione sociale dei minori della città previsto dalla legge 285/1997[6], appena promulgata. Da tale determinazione di politica pubblica locale si configurò un’alleanza larga, un partenariato di soggetti attuatori che comprendeva il Provveditorato agli Studi, il Comune di Napoli stesso, l’Università Federico II e che poté contare sul coinvolgimento delle agenzie educative del privato sociale di ciascun territorio interessato, che erano già attive nel contrasto del fallimento formativo.
Oggi possiamo dire senza tema di smentita che fu il primo, potente, profetico accordo di programma civile di una comunità educante che si fece città e di una città che aderì alla prospettiva di favorire e sostenere comunità educanti. Questa alleanza – che possiamo definire “di sviluppo educativo cittadino” – dopo 5 anni aveva incontrato, uno ad uno, insieme alle famiglie, 790 ragazzi e ragazze inadempienti totali all’obbligo. Ne avevamo accompagnati alla licenza media, con tutti i crismi, 369 di cui 331 promossi, l’89%, riaccompagnando molti degli altri alla via della scuola ordinaria o, viceversa, a progetti ad personam. Di questi 369 ne abbiamo successivamente accompagnati a processi formativi presso istituzioni o botteghe artigianali 255, il 77% dei licenziati di scuola media, rimanendo in contatto con loro e con molti degli altri, anche anni dopo[7].
Negli anni successivi il trend è stato analogo e, nelle condizioni date, molto positivo, anche nel confronto con simili azioni di seconda occasione in Europa, con le quali Chance ebbe modo di confrontarsi regolarmente, assumendo, anche con progetti europei dedicati, una prospettiva continentale.
Possiamo dire che è stato un prototipo funzionante, che, se applicato, avrebbe potuto ben rappresentare un architrave di un sistema di recupero vero per chi cadeva fuori dal diritto all’istruzione in Italia. Infatti, oltre all’UE, in particolare il Consiglio dell’Europa, con un’estesa relazione, con relative raccomandazioni a carattere generale, ci indicarono come buona pratica continentale[8].
Ma tale buona pratica non fu consolidata, non divenne un servizio stabile. Eppure, nonostante questo esito doloroso, che allora ci scosse, possiamo dire che, invece, Chance ha co-ispirato molte altre progettualità e azioni, assumendo una funzione di profezia e proposta di lungo termine che vive in moltissime, diffuse esperienze che si sono da allora sviluppate e ha contribuito a rafforzare decisioni e investimenti a favore del contrasto del fallimento formativo in Italia nella prospettiva della costruzione di comunità educanti concepite in moda da andare oltre le mura della scuola, nella prospettiva, sempre più necessaria e quasi “naturale” delle città (prese nella loro complessa interezza), che educano e fanno apprendere[9].
Per entrare dentro quest’avventura, dopo questo tempo, abbiamo scelto di strutturare il testo come un dialogo, recuperando una tipologia di domande frequenti che, negli anni, ci sono state poste e immaginando degli interlocutori curiosi e ignari del progetto.
Preludio: Chance, l’invenzione di una tradizione
Proviamo a immaginare questo breve articolo come una prosecuzione del dibattito sul progetto Chance-Maestri di strada, nella prospettiva di riannodare i fili di alcuni mesi di discussione.
Circa un anno fa provammo a organizzare un convegno o un seminario sul progetto Chance, per i suoi 25 anni, consapevoli della sua ricchezza e della possibilità di farne occasione di riflessione rivolta non alla sua ricostruzione filologica, ma al suo “ri-uso”, a partire da domande e bisogni, anche molto diversi, nella galassia delle esperienze di educazione e di inclusione democratica. La cosa non andò a buon fine, troppo complessa forse per le forze allora a disposizione. Secondo noi quel bisogno e quella opportunità sono ancora vivi, e chissà, magari qualcosa potrebbe ricominciare proprio da qui.
La questione preliminare che sorse fu quella, come è giusto fare sempre, di quali fossero i “documenti” su cui poggiare le argomentazioni. Il documento principale a cui si faceva riferimento erano le testimonianze, le storie dei protagonisti di Chance e di una sua prima area di “contagio”, sperimentazioni risonanti che avvenivano altrove. La cosa, per quanto apparentemente ovvia, non fu affatto semplice. Schematizzando: chi sosteneva che le testimonianze fossero le fonti e le prove a cui riferirsi; chi sosteneva che la dimensione narrativa avesse una base soggettiva ineliminabile. La presunzione della testimonianza come qualcosa di “oggettivo” vacillava. Niente di nuovo, vista con gli occhi di oggi, nel dibattito sulla narrazione delle organizzazioni complesse, sul sensemaking e sulla visione delle ricostruzioni storiche come ricostruzione, e proiezione, della possibilità. Riprenderemo più avanti questi aspetti.
Questa dimensione “metodologica” fa parte dei ragionamenti che proviamo a fare qui, perché il tema del fondamento e della tradizione di Chance a cui riferirci costituisce la nostra debole prospettiva.
Queste pagine – e ringraziamo per l’opportunità offertaci – ci consentono di riprendere alcuni ragionamenti, intorno soprattutto a una questione che fu, da subito, posta all’ordine del giorno: Chance può essere un modello replicabile?
Domanda, allora e forse ancora oggi, che genera gruppi di domande e che nasce in una cultura – sintetizziamo – delle “buone pratiche”. Una visione che oggi, più di allora, ci appare asfittica e forse ingenua: ridurre un’esperienza a un prontuario di strumenti e tecniche era l’ottimistico presupposto per la “trasmissibilità” di un sapere, di una sperimentazione ridotta a format. Quella domanda, insomma, chiedeva, in quel tempo, una risposta assertiva, una guida; ma ciò crea interrogativi profondi, ulteriori.
Quella che segue è, invece, una ricostruzione consapevolmente soggettiva del progetto Chance-maestri di strada (ogni operatore vi darebbe una “sua” storia); diciamo che coincide con una visione metodologica della ricerca e con alcuni presupposti teorici. Riguarda la fase iniziale del progetto, 1998 – 2000, in cui, come detto, Chance era un progetto contro “l’evasione scolastica” dei 13-14enni spesso pluri-bocciati e/o inadempienti all’obbligo di istruzione, per far loro conseguire, intanto, il diploma di III media, che, allora, coincideva con l’obbligo stesso. Negli anni seguenti Chance ha “inseguito” gli innalzamenti dell’obbligo e ha cooperato con scuole secondarie per l’assolvimento. Qui ci concentriamo sulla prima fase che, come detto all’inizio, assumeva, in ogni caso una connotazione politica e d’intervento consapevole della complessità dell’ambizione, tanto da coinvolgere molti attori istituzionali e figure professionali tra scuola e fuori scuola.
Di fronte a una visione “oggettiva” del mondo e di fronte alla conseguente visione della rappresentazione come rispecchiamento del vero, di fronte al tentativo, anche interno al progetto, di volere descrivere “cosa è stato veramente Chance” (il prerequisito per la sua modellizzazione e diffusione) c’è sempre stata l’evidenza di narrazioni irriducibili a uno stesso fondamento “reale”.
Qui abbiamo scelto di partire dalle domande di senso che seguono, anche diverse, augurabilmente diverse, e di costruire un format conversazionale, fra vecchi attori (e loro inedite domande, rivolte alla loro stessa storia) e nuovi attori, con i loro bisogni e la loro curiosità. Forma “conversazionale” che proviamo a mimare, d’ora in avanti, nella forma dialogica.
Cosa intendete con “invenzione di una tradizione”?
Prendiamo questa formula a prestito da Eric Hobsbawn.[10] Detto schematicamente: spesso le tradizioni nascono sulla scorta di bisogni del presente, che ha necessità di una narrazione identitaria, e ha bisogno di questa per costruire una coesione identitaria, a partire da radici comuni. La nostra speranza è di mettere in connessione la ricerca attuale di risposte alla crisi educativa, e in particolare della scuola – a partire dalle domande e dalla costruzione, oggi, di quadri condivisi di riferimento – con un’esperienza ricca e ritenuta paradigmatica, Chance, appunto. Si deve, insomma, poter sperare di mettere in contatto un repertorio di pratiche con nuove domande di nuove pratiche. Il problema che ponevamo era: che cos’è un repertorio? Chi lo seleziona? Chi lo pone a fondamento?
Felice Cimatti, filosofo del linguaggio, che ha studiato memoria e oblio, sostiene che “ogni ricordo del passato è in realtà una ricostruzione a partire dall’interrogazione mnestica che parte dal presente”.[11] Questa ipotesi, suffragata dalle ricerche crescenti delle neuroscienze, dà forza al nostro assunto, per cui il ricordo, l’attività del ricordare, non nasce dal fondamento di un repository (che resterebbero ricordi “orfani”, come dice Cimatti), ma è un costrutto pratico (e sociale) che ricrea come ricordo alcune tracce mnestiche. Nella pratica del ricordare, resta il problema della differenza fra memoria (che avrebbe a che fare comunque col “vero”) e immaginazione, parente appunto alla fiction. Anche in questa interpretazione estrema del ricordo come effetto di una “pratica” e non come un dato, e del “ricordare” quindi come un’invenzione, quest’ultima mantiene tutta la sua valenza cognitiva: “Scrivere fiction è come ricordare quello che mai è accaduto”, sostiene Siri Hustved,[12]; e altrove: “Ho sempre sentito in modo intuitivo che ricordare e immaginare sono fortemente connessi – anzi così simili da essere a volte indistricabili”[13]; ”è ormai noto che l’ippocampo, insieme ad altre aree del lobo temporale mediale, è fondamentale per elaborare e immagazzinare i ricordi, ma a quanto sembra è essenziale anche per immaginare”.[14] Gallese sintetizza, riconoscendo la fondatezza scientifica di queste affermazioni: “La tesi sostenuta da Hustvedt è che la memoria e l’immaginazione partecipino allo stesso processo mentale, poiché sono entrambe legate alle emozioni e spesso assumono la forma della narrazione”[15]; “mostra come una caratteristica comune della memoria e dell’immaginazione sia il loro contorno emotivo, un contorno che riaffiora anche quando la memoria e l’immaginazione sono riordinate all’interno di una struttura narrativa”.
Insomma: questa prospettiva mette in crisi la differenza (presunta) tra i veri ricordi e le fantasiose immaginazioni. Al tempo stesso siamo consapevoli che qualcosa è accaduto, che la realtà vissuta non è solo immaginazione, che l’esistenza delle persone coinvolte (ragazzi/e, famiglie, educatori, docenti, psicologi, assistenti sociali, ecc.) – anche nel progetto Chance – ha visto vivere effettivi cambiamenti, trasformazioni, che, attraverso esperienze poliforme e ricche, ha creato occasioni, opportunità inverando “un po’ di più” i diritti e generando riparazioni, sia pure incertissime, a iniquità profonde. Del resto, le parole e i visi dei ragazzi, ora adulti, che continuiamo a incontrare, ci dicono che qualcosa allora è cambiato grazie al vivo delle esperienze loro proposte e delle quali si sono appropriati e che, al contempo, essi per primi hanno inventato una loro tradizione e anche, a volte, una sorta di “pacata mitizzazione” intorno agli anni formativi che hanno vissuto a Chance. E, a volte, chi qui scrive si è immaginato di poter raccogliere la “voice”[16] di oggi dei ragazzi di ieri tra ricordi, ricostruzione di esperienze e loro significati, mancanze e anche reciproca gratitudine (categoria a sua volta rischiosa e promettente) non già per un dono ricevuto ma per un’esperienza avventurosa vissuta insieme tra generazioni, che ha generato qualcosa.
Così, l’invenzione della tradizione convive con i dati, i risultati, secondo piste incerte, scenari multi-formi e multi-strato, che generano – in tutte le persone coinvolte – rassicurazione e, insieme, dubbio, che aprono a ulteriore indagine e possibile apprendimento, ancora oggi.
Qui si andrebbe troppo lontano (ma che significa, poi, “troppo” lontano? Chi decide che cos’è quel “troppo”? in effetti lontano e vicino dipendono dalla posizione dell’osservatore e non da una metrica esterna alla sua posizione) ma il tema delle emozioni, e del loro essere tutt’uno con la mente (con la mente estesa, con la mente-corpo, direbbe Gallese, rifiutando la riduzione della mente al cervello) introduce il tema della corporeità nella conoscenza e nell’azione e dell’intreccio con i dati reali, che pur esistono.
Per chiudere la risposta, a noi che, oggi, andiamo a ritroso a guardare questa esperienza, interessa che la conversazione possa istruirsi e inventarsi su di una tradizione da porre a fondamento per l’agire educativo.
Come interpretare quindi queste differenti ricostruzioni?
Se partiamo dal presupposto che ogni ricordo è un atto in “prima persona”, emotivo, e in cui immaginazione e verità sono davvero difficili da separare, il fatto che ci troviamo di fronte a ricordi diversi, “soggettivi”, non dovrebbe meravigliare. Non è che solo la distanza consente di ri-vedere le azioni e di codificare una categoria di “fatti”. Anche la memoria breve, per così dire, agiva in maniera interpretativa e non “fedele” e le ricostruzioni erano differenti fra gli attori e nel tempo.
Ecco, questa forse è una delle prime “fattezze” di Chance: un’organizzazione fatta di “differenze”. Quando parliamo di differenze, non parliamo solo di quelle irriducibili (oggi la differenza è un mantra, spesso declinato però in format didattici e educativi omologanti) di ragazze e ragazzi, ma anche di quelle professionali delle varie figure progettuali, di quelle istituzionali, che Chance ha voluto mettere insieme. Forse, ecco un elemento che allora non ci appariva chiaro: le differenze delle figure adulte, delle culture e delle emozioni dei vari attori erano un dispositivo indispensabile per relazionarsi alle differenze dei ragazzi. Questo ci appare senz’altro come un elemento della tradizione e, soprattutto, come un elemento culturale e organizzativo che ha preso forma adesso, attraverso qualcosa che non è il ricordo, ma il ricordare. È un elemento del “sapere”, che sicuramente è passato. Si pensi alle Comunità educanti, in progetti successivi. Ma, forse, ciò è avvenuto senza riflettere a fondo sulla sua importanza, sulla necessità della sua “difesa” organizzativa e dei setting necessari affinché la riflessione potesse avvenire e avvenire in maniera coralmente dialogica, fino a costituire un capitale cognitivo dinamico.
La difesa organizzativa cosa significa? Significa “ognuno per sé”?
Forse lo vediamo solo ora, appunto, che Chance è stata un’organizzazione capace di apprendere in termini organizzativi, anche se, a guardar bene, alcune riflessioni, svolte da occhi esterni, avevano avviato un pensare sugli assetti organizzativi promettenti dell’esperienza già durante il corso del progetto[17].
Il pensiero organizzativo ha individuato una procedura e un setting delle organizzazioni riflessive – quelle come Chance – secondo la nostra lettura odierna: il “sensemaking”, una operazione postuma, come qualche studioso lo ha definito,[18] che dà senso a quello che è successo solo attraverso riflessioni ex post, che lo rilegge come possibilità (il possibilismo è una fondamentale categoria di A. Hirschman). La tipicità dell’organizzazione capace di riflessione siffatta è che si tratta di capacità non solitaria, ma corale; avviene solo in setting preposti a ciò, dove è possibile una risonanza.[19] Ognuno produce il suo oggetto riflessivo che modifica gli altri e da questi è modificato, fino a costruire un oggetto sufficientemente buono e sufficientemente condiviso, che diventa il “bene comune cognitivo”, e quindi un vincolo per tutti. Si tratta, così, di un dispositivo organizzativo che, frutto di cooperazione responsabile e deliberata, determina consapevolezze multiple e può creare pianificazione altrettanto cooperativa. Visioni e iniziative anche individuali sono la partenza ineliminabile, ma poi è il gruppo che agisce.
Pensiamo, come metafora, a Sliding doors.[20] Ognuno rilegge il passato a partire dalle sue categorie e dalle sue visioni (ma metteteci anche i sentimenti, gli interessi) di oggi; ognuno inventa la sua tradizione (Hobsbawn). Non solo: vi sono, in conto, anche altre possibilità, nel senso di un possibilismo chesignifica che le cose potevano andare anche diversamente, forse sono andate diversamente da come la nostra percezione di allora ci consentiva di definire e classificare, ma che il sensemaking oggi rivela come “realtà” più ricche di quanto ci apparvero. Così, anche l’uso di Chance potrebbe essere una possibilità diversa dall’illusione di una sua riproduzione fedele (dell’illusione di questa fedeltà). Questo lavoro di sensemaking, il suo possibilismo ci educano a pensare che la realtà, quello che poi veramente avviene, è una parte della sua possibilità, e non che il “possibile” sia una versione “quantitativamente” ridotta della realtà. Il “possibile” riguarda la forma delle cose. Estremizzando: il possibile è un bricolage, più che un design; e chiama in causa la forma di intelligenza che i Greci chiamavano metis.[21]
Quello che oggi chi scrive pensa di poter dire a proposito della metafora di sliding doors riferita all’esperienza di Chance, assumendocene la responsabilità, e “ricordando”, è che l’esperienza Chance non appartiene alla visione TINA, slogan thatcheriano che esaltava il realismo come matrice delle uniche scelte possibili, there is no alternative, ma propone una visione per cui there are many possibilities.
Impossibile o possibile proporre Chance come modello?
Date le cose sopra evidenziate riflessioni, la risposta è che è possibile proporre Chance come modello, a condizione che si precisi cosa si intende per modello.
E allora quale modello? La prima cosa da dire a riguardo è che Chance era un progetto ecologico. Non nel senso della cura dell’ambiente, ma nel senso di un progetto fatto di relazioni, di reti di differenze. Ecologico significa che ambiente sono le relazioni interconnesse e non qualcosa di esterno agli attori. Interconnesso significa, come abbiamo detto, che ogni elemento prende forma nella relazione con gli altri, si individua entro il contesto esperienziale e organizzativo che è comune. L’antropologia, autori come Remotti, le ricerche nelle neuroscienze suffragano questa visione di ecologico. E Gallese ci invita, a sostituire ormai al concetto di “individuo” quello di “co-individuo”. Va da sé che anche in questo caso esiste una risonanza forte fra la visione degli allievi, della didattica e dell’organizzazione.
Questo dell’ecologico così inteso è un primo fondamento della complessità[22], un primo dato da consegnare a una “buona pratica” di oggi.
Il modello a cui questa narrazione si riferisce non è un sistema chiuso e replicabile automaticamente, una raccolta di metodi – strumenti – obiettivi, quella che superficialmente viene intesa come buona pratica. È un modello generativo.[23] E, con generativo si vuole intendere, suggerire e accompagnare una prospettiva di implementazione locale delle azioni, ossia la produzione di assetti che si possano poggiare su due requisiti fondamentali: la specificità e l’attivazione delle risorse locali; l’assunzione di responsabilità degli attori nelle scelte, sempre però nei limiti di una visione comune e con cui, in un certo senso, si stabilisce un patto. È questo patto, che ha un fondamento e uno sguardo pubblico, che funziona da accompagnamento riflessivo (in che maniera quello che fate risuona con la visione del patto?), da vincolo e da possibilità.[24]
Un modello generativo non può che essere “complesso”; un modello complesso non può che essere generativo. Nel nostro caso, “complesso” significa “aperto”.
Ci fate un esempio di questa “apertura”?
L’apertura ha a che fare con l’inatteso.
L’apertura comincia, per così dire, dalla visione che noi abbiamo e dalla voice dei destinatari. Occorre inaugurare immediatamente, perché ha la potenza di un imprinting, una relazione destigmatizzante. Solo la felicità di questa relazione apre la prima speranza dii una chance evolutiva che scardini i copioni esistenziali dei ragazzi e delle ragazze. Apertura significa fondarsi sulla cura sulla curiosità, sfuggire al potere di nominare le persone per la loro difettività, per quello che gli manca per essere semplicisticamente inclusi. È l’incontro con loro che ci apre all’inatteso, alla necessità di abbandonare, col cliché, la sequenza degli strumenti già previsti, ognuno riferito a un campo di intervento. La cassetta degli attrezzi, che deve essere ricca, metafora in uso a Chance, va aperta e assemblata momento per momento.
Apertura significa che la relazione interprofessionale esonda dalla indispensabile configurazione dei saperi di ogni figura, perché la compresenza professionale significa contaminare le professionalità e costruire un soggetto emozionale, ricettivo e “tecnico” complesso. L’interprofessionalità esiste davvero se produce forme di ibridazione, non episodica, culturale.
Apertura, in definitiva, significa che un progetto contro l’emergenza educativa deve essere un progetto che accetti che l’emergenza (nel senso che qualcosa di inedito emerge continuamente dalle azioni nel mondo) è una dimensione ordinaria e non straordinaria della vita. Ora tutto questo, questo eccesso di “rumore”, di informazioni, di possibilità, di attori non previsti necessita di una organizzazione consapevole di questi e capace di contenere processi distruttivi e di accompagnare processi di apertura. Chance, rivista dopo quasi trent’anni, è stata una organizzazione della complessità. Come era fatta, quali dispositivi avesse finalizzati a ciò, proveremo a dirlo oltre.
Se doveste spiegare, dopo 25 anni e oltre, come era “fatto” Chance a chi non ne sa nulla?
Dovremmo certamente inquadrarlo innanzitutto istituzionalmente. Crediamo, infatti, che sia importante sottolineare che era un progetto istituzionale, con un esplicito mandato istituzionale per il recupero dell’evasione scolastica. Questo è un dato di fatto, il primo elemento di conoscenza dell’esperienza dei maestri di strada, necessario per sottrarla alla mitopoiesi del volontariato, dell’eroismo, dell’eccezionalità. La dimensione istituzionale, e la sua struttura organizzativa, sono tanto più importanti da dire quanto più i discorsi sulla scuola, oggi, sono infarciti di soggettività e di richiesta continua di risorse senza una visione. Come dice C. Melazzini, i docenti di Chance erano docenti di media umanità e professionalità; quello che non era “medio”, ma davvero innovativo, era l’assetto istituzionale. Ai progettisti (Moreno, Rossi-Doria, Villani) era chiaro che senza setting fortemente ispirati al “poter impattare davvero” su una questione così complessa non si sarebbero cantate messe, che l’organizzazione era un dispositivo cognitivo e generativo di innovazione nel rispetto di un mandato, appunto istituzionale. La cornice costituzionale (comma due dell’articolo 3) e i fondi pubblici co-allocati dal Ministero della Pubblica Istruzione (in termini di dotazione di docenti utilizzati ad hoc) e da quello delle Politiche Sociali (con fondi dedicati della Legge 285/97 nella sua prima applicazione) ne sono, anche allo sguardo di oggi, la prova incontrovertibile.
Qual era il mandato?
Chance nasce, per dirla con una dicitura oggi di moda e forse abusata, come comunità educante, una comunità interistituzionale e interprofessionale. Con lo sguardo di adesso, come già detto, si è probabilmente trattato di un agire profetico, di una spinta di avanguardia che ha anticipato molte cose, in parte, forse, contribuendo a generarle.
In ogni caso, il mandato istituzionale che guida l’agire di Chance indica come fine un processo de-istituzionalizzante (e re-istituzionalizzante) della scuola, una aporia, allora, solo apparente. A differenza di troppe ciance, che oggi si fanno sulla comunità educante, in cui spesso i partenariati nascono a priori, prima di qualunque inchiesta radicata nel vivo delle relazioni sociali dei territori interessati e vengono, dunque, creati come una rete predefinita, in equilibrio segmentale fra saperi e funzioni, e interessi, a Chance era, al contrario, affidato un campo aperto di azione. Così, il mandato ricevuto univa, sapientemente, una richiesta di responsabilità verso ragazzi e ragazze che chiamavano tutti a una ritrovata spinta istituzionale, appunto, alla presa in carico adulta ed educativa e una libertà di progettare e mettere alla prova ogni dispositivo utile al mandato.
La chiave di lettura della de-istituzionalizzazione non era, nel 1997, una cosa rara; un’onda lunga basagliana aveva fatto a tempo a lambire anche la scuola.[25] Nel caso di Chance, agli operatori scolastici veniva affidato un compito politico – come si è detto – attraverso un mandato sperimentale teso a raggiungere tutti i ragazzi/e “fuori tiro”, a svolgere una poliedrica azione di reaching out verso persone giovanissime che – per il sistema d’istruzione – erano già out of reach: raggiungere gli irragiunti. Proprio per questa natura ampia del mandato, si destava la possibilità dell’uso di una squadra multi-professionale, che univa docenti, educatori, operatori di molti laboratori, trainer sportivi, psicologi, assistenti sociali, ecc.
A monte e “a sorgente” di tale mandato nazionale, vi fu anche un mandato europeo e internazionale, afferente ai diritti universali dell’infanzia, che l’Italia aveva contribuito a definire in sede ONU e che, con la presidenza Delors, l’UE aveva sposato in pieno[26].
È di questo insieme di sfide che il mandato chiedeva di dar conto. Ma sul dare conto non tratteremo in questa sede se non per dire che le istituzioni, dopo un primo tempo nel quale richiesero attenzione a narrazioni, dati, monitoraggio (senza, tuttavia, mai disegnare una scena valutativa capace di indagare gli impatti come oggi si usa in modo più diffuso), vennero meno al compito di “chiedere conto” insieme a quello di accompagnare e di dare vera stabilità ai “ritrovati”[27].
Ci fate un esempio di una azione de-istituzionalizzante?
Il lavoro di strada. Non è un caso che a Chance (opportunità) si associava sempre “maestri di strada”,[28] quasi un ossimoro. Noi non nasciamo nella scuola, ma nel lavoro di strada, alla ricerca di contatto con drop out e famiglie. Il lavoro di strada era una vera e propria “inchiesta”, un’azione che disegna, crea il territorio. La scuola viene de-istituzionalizzata e, contemporaneamente, re-istituzionalizzata, uscendo dagli edifici, dai luoghi e dai suoi setting “storici”. Uscendo anche dai repertori dei saperi formali dei curricoli dei docenti. La nostra sededi lavoro fu, per un bel po’, solo la strada. Uno spaesamento. Chiamati per “chiara fama”, fuori dalle graduatorie, per meriti nella lotta all’esclusione, ben presto l’inchiesta ci rivelò la nostra inadeguatezza. Saperi nati in aula non avevano alcuna garanzia di funzionare con ragazzi senza aula. Eppure. imparammo facendo e i resoconti, sparsi nei nostri computer, di quel tempo, ci dicono di questo apprendimento, che si nutriva di vita di quartiere, parole e azioni dei ragazzi stessi, incontro con i genitori in via formale e informale, confronto inter-professionale tra culture di lavoro diverse, in particolare educatori, docenti e assistenti sociali che indagavano, insieme, la vita educativa nella sua concezione globale e non più scolastica. Qualche promessa avrebbe il riunire oggi quelle osservazioni polifone e esse stesse “on the road”
In cosa consisteva il lavoro di strada?
Avevamo una lista di inadempienti all’obbligo (a quel tempo limitato alla III media). Andavamo per case e luoghi loro. Dovevamo “convincerli” ad accettare la chance che gli proponevamo. Non era facile. Dopo avremmo fatto una selezione fra gli elenchi forniti dai servizi sociali e il numero, 30 all’anno, di inadempienti che potevamo “prendere”. Facevamo questo lavoro insieme, educatori e docenti, spesso con il coordinatore.
Chi erano gli Educatori?
Questo è un altro punto della de/re-istituzionalizzazione: l’inter-professionalità, che fu autentica. Gli educatori erano parte integrata del progetto, non un alleato o una appendice esterna. Contaminando informazioni e saperi nasceva con loro il primo step di co-progettazione. Si andava ben oltre i numeri delle anagrafi dei drop out. I numeri sono importanti, fanno comprendere flussi e trend di sistema, ma il nostro passo era poi differente: si trattava di fare anagrafi biografiche. E fai anagrafi biografiche se già in quell’imprinting crei uno “spazio di parola”, un luogo dove i destinatari da target (bersaglio immobile e possibilmente di taglia conforme con l’offerta) possano diventare interlocutori ed essere la prima base informativa di sé stessi, in un loro spazio di potere.[29]
La strada è stato il nostro laboratorio di apprendimento, di ascolto e dialogo. La nascita della relazione è stata qualcosa che, in Chance, ha avuto una genesi tra strada e incontro con più figure educative attivate o ri-attivate entro un nuovo patto, che ha compreso docenti, educatori, assistenti sociali e genitori – che furono nuovamente ri-conosciuti, in senso letterale, come educatori primari, alleati dell’intera costruzione comune. Dunque, gli educatori furono attori di primo piano e di cerniera entro questo cantiere aperto.
Altri esempi di de/re-istituzionalizzazione?
La trasformazione dell’orario di lavoro e del profilo professionale. Eravamo docenti di discipline e ordini di scuola diversi, elementari, medie, superiori. Ci siamo costituiti subito come gruppo; “gruppale”, “corale” erano le parole più gettonate, a significare che il lavoro, di cura non era un lavoro individuale. Il monte orario fu sommato (diverse, da contratto, le ore di elementari, medie e superiori) e diviso per 6 (eravamo sei docenti). Nel monte ore erano previste, descritte e codificate in setting rigidi, supervisione pedagogica e pedagogiche, per tutto il team, affidate a un* psicolog* e al coordinatore didattico. Ogni venerdì la programmazione, meticolosa, con educatori ed esperti di laboratori, si definivano le compresenze in aula e nelle uscite. Fu un’organizzazione complessa ma non aleatoria. A questa struttura va aggiunta, prevista e codificata, la formazione seminariale, almeno quattro volte l’anno, con la supervisione degli psicologi dell’Università e della Tavistock, arricchita da formatori prossimali ai bisogni formativi emergenti. Quattro volte l’anno, la formazione assumeva la forma del “gruppo”, gestita da G. Margherita, un’esperienza fortemente psicologica, mai frontale, tutti scalzi e seduti a terra in una stanza. Chance era il campo che si creava, oltre e più potente del contratto.
Non si capirebbe la “condizione materiale” degli operatori Chance se non si facesse cenno agli “strumenti” obbligatori per tutti: le osservazioni scritte su situazioni calde ritenute necessarie da approfondire in gruppo; le relazioni, di tutti, ai seminari; le “restituzioni” che si facevano a turno su fasi del lavoro; i verbali analitici delle riunioni. Se la cultura della scuola oscilla fra l’ineffabilità e la burocratizzazione del proprio lavoro, Chance ha costruito una cultura della scrittura condivisa e responsabile, perché la scrittura si configura come una forma essenziale di sensemaking e quindi di riflessività (sempre corale) degli operatori e del sistema. Gli oggetti scritti si pongono come medium, come una ipotesi di oggettivazione, nel senso di intersoggettività del proprio lavoro, una sorta di “diario di bordo” articolato, permanente e sommamente condiviso entro una comune, regolare riflessività propria delle migliori comunità di pratiche. E tutto questo fece terra bruciata della tendenza al conflitto, fasullo, e tautologico sulle frasi fatte educative, pedagogiche, politiche. Queste pratiche hanno anche moderato l’abitudine al parlarsi addosso di tante discussioni didattiche.
Ma forse l’impatto più significativo, soprattutto pensando alla scuola, fu determinato dall’importanza data ai “secondi saperi” degli adulti, docenti ed e educatori. Fermo restando il sapere disciplinare, il secondo sapere (chi aveva esperienze serie o addirittura competenze, nello sport, nell’arte, nelle nuove tecnologie, artigianato…) era chiamato in causa per metterle a disposizione del progetto e della programmazione di attività didattiche tout-court, anche se oltre i fondamentali saperi disciplinari. Un vero e proprio dispositivo, che nei fatti modificava ka visione di un assetto professionale fondato esclusivamente sul cursus formale della formazione. un dispositivo che costruiva un fondamento e un ponte nella dimensione fondante, del progetto, dll’iterprofessionalità e delle compresenze, del dentro e fuori dell’aula, delle discipline. Un dispositivo che consentiva una plasticità nell’incontro con i ragazzi e le ragazze, ma, importante, che consentiva di uscire dalle pratiche solo riempitive o di intrattenimento (spesso occulti meccanismi di emarginazione) e di fondale comunque sull’apprendimento, considerata una dimensione umana e universale delle persone, a prescindere da tutte le gerarchie di nobiltà che ancora vengono, spesso in forma silenziosa perché fortemente interiorizzate, proposte.
Avete citato l’orario. Come era costruito?
L’orario, una forma decostruita rispetto a quella canonica della scuola – materia/ora/programma/separazione cognitivo da emotivo/ impari dignità fra formale e informale, dentro/fuori…- prevedeva la pari dignità di tutte le attività (disciplinari, ludiche, laboratoriali, uscite) in quanto tutte capaci di offrire chance di apprendimento, di crescita, di “significanza”.[30] Era strutturato sulla co-docenza. Prevedeva uno spazio iniziale di accoglienza, fatta di prima colazione e convivialità accogliente fatta di chiacchiere con educatori/trici e bidelle; si chiudeva con l’autovalutazione della giornata (presente/presente, presente/assente se alla presenza fisica non corrispondeva una positività nell’apprendimento; assente, se si era stati fuori a fare bordello). Infine: mettere a posto il cantiere, a partire dal portfolio nell’armadietto personale. Ogni azione, questo è importante, aveva un suo tempo codificato. La valutazione provava a tener conto di tutte le attività nominate nell’orario e del flusso regolare dell’insieme del processo che premiava partecipazione e progressiva responsabilizzazione, intesa verso di sé, verso l’imparare, verso gli altri, verso la città, che veniva frequentata, studiata entro la dimensione pluri-disciplinare, ri-scoperta insieme al circondario, dal mare ai monti, alle campagne e all’operare umano nei diversi ambiti, dal museo, ai laboratori di ricerca, ai luoghi delle produzioni materiali, alle istituzioni politiche, ecc.
Perché avete cominciato il viaggio senza gli alunni?
C’è una ”legge” per il lavoro di cura, che Chance ha codificato e ha provato, senza grande successo, a diffondere, di difficile applicazione nelle buone pratiche che vorrebbero riferirsi ai maestri di strada. La cura di ragazze e ragazzi comincia dalla cura degli adulti che devono prenderli in carico.
Circa tre mesi furono dedicati alla formazione del team inter-professionale e inter-istituzionale. Non la formazione a cui siamo abituati: trasferimento di contenuti da parte di “esperti di troppo”, che già sanno cosa devi sapere, come lo devi utilizzare, quali risultati devi ottenere, quale scansione temporale. L’inizio del nostro lavoro fu almeno tre mesi prima dell’inizio della scuola Chance, senza conoscere quali alunn* che ci sarebbero toccati. “Prepararsi al compito”, si chiamava quella fase. Un testo di Isca Salzberger Wittemberg, Di fronte a una nuova esperienza,[31] fu il nostro testo base. Un team building sui generis e potente.
Da chi era composto il team?
Educatori, coordinatori, docenti, Dirigenti Scolastici, assistenti sociali, referenti politici del Comune. Poi vi furono anche altri, all’occasione, che oggi potremmo chiamare parte del civismo educativo diffuso proprio di ogni città. Gli incontri erano condotti dagli psicoanalisti dell’Università, nostri primi supervisori.
Qual era il senso profondo di questa formazione?
Rispondiamo con le parole di Carla Melazzini: “Non avremmo fatto un passo avanti se non ci fossimo messi nella posizione di chi apprende; ma l’apprendimento fa paura, la paura atavica dell’ignoto e del nuovo, e di non essere all’altezza del compito. La paura spinge ad arretrare sulle posizioni conosciute e consolidate, sulla sicurezza di un’identità ben definita, in questo caso quella dell’insegnante che insegna, nel senso che trasmette un bagaglio codificato di informazioni, in posizione totalmente asimmetrica rispetto all’alunno che tali informazioni non possiede nella sua mente”.
La formazione – svolta prima e poi durante tutto il nostro operare – aveva al centro il misurarsi, trasformativo, con questa paura che dovevamo accettare, indagare e poi superare, insieme.
Se doveste concludere questa parte del racconto…
Presentare Chance come una cosa fatta da persone con qualcosa di speciale è una facile scorciatoia. Eravamo persone di media umanità, di media cultura professionale. Quello che era fuori norma era la struttura organizzativa, la sua sapienza costruita lungo il cammino. E, a proposito di sapienza, quello che aveva di speciale era l’accompagnamento, che poi dopo avremmo definito, appunto, “sapiente”. Ma cosa era questa sapienza? C’era una consapevolezza della visione, a cui eravamo chiamati e il rifiuto dell’onnipotenza pedagogica nel nome della ricerca di nuove vie, necessarie e che lungo la via promettevano… La sapienza, soprattutto, si basava sulla conoscenza e consapevolezza della vision e lavorava alla continua congruenza fra mission e vision. La sapienza è una sorta di saper asimmetrico, che spetta al coordinatore e spetterebbe alla Politica, per governare una organizzazione in perenne assetto variabile, che ha una rotta ma sa che la navigazione è sempre imprevista, e bisogna fare in modo che rotta e navigazione non divergano.
[1] Etienne Wenger, Studi sociali, n° 1, 2001, teorico delle “comunità di pratiche”.
[2] Eckart Liebau, Erfahrung und Verantwortung: Werteerziehung als Pädagogik der Teilhabe, 1999
(Esperienza e responsabilità: l’educazione ai valori come pedagogia della partecipazione)
[3] Oltre alle parti relative al progetto Chance in E. Brighenti (a cura di), Ricomincio da me. L’identità delle scuole di seconda occasione in Italia, Trento, 2006, poi ripubblicato per Erickson, Trento, 2009 e C. Berazzoni (a cura di), Le scuole di seconda occasione in Italia vol II, Erickson, Trento, 2009, si vedano: Progetto Chance, percorso progettuale e pratiche educative a cura del gruppo di lavoro, progetto Chance, a cura della Onlus “maestri di strada”, Napoli, 2003; Il progetto Chance (a cura di S. Adamo), I seminari psicologici del progetto Chance, a cura della Onlus “maestri di strada”, Napoli, 2003; Il contributo psicanalitico ad una scuola per adolescenti drop-out (a cura di S. Adamo e P. Valerio), a cura della Onlus “maestri di strada”, Napoli, 2003; C. Melazzini, Ho insegnato al Principe di Danimarca, Sellerio, Palermo, 2011; M. Rossi-Doria, Di mestiere faccio il maestro, edizione rivista, Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2008; C. Pontecorvo (a cura di), Progetto Chance. Documenti di un percorso formativo di adolescenti drop-out e di insegnanti a Napoli, in Età evolutiva, 2000, n. 67; Onlus Maestri di strada, Progetto Chance, 2003, Il chiasso e la parola, autoprodotto, 2003; Onlus Maestri di strada, Non smettete proprio mai, testi dei ragazzi Chance, 2003; M. Rossi-Doria, La scuola della seconda occasione, in Animazione sociale, gennaio 2004; M. Rossi-Doria, Cinque cose apprese con i ragazzi di strada, in Animazione sociale, novembre 2004; S. Pirozzi, La monnezza e le rose, fare lavoro sociale a Napoli, in Animazione sociale, 2008, n.; S. Pirozzi, Street teachers of Naples, Conferenza di nuova Delhi dell’731), 2008; S. Pirozzi, Poietiche e politiche, pratiche, metafore e competenze di un maestro di strada, Venezia, 2008; M. Rossi-Doria, Quotidiano di Guerra nelle periferie, dal diario di bordo di un maestro di strada, in A. Zanotti e R. De Angelis (a cura di), Periferie e migranti globali, Le lettere, Firenze, 2009; S. Pirozzi e M. Rossi- Doria, La scuola vista da chi non ci va e la “capacità di aspirare a”. Pinocchio alzati che devi andare a scuola, in B. Ligorio e C. Pontecorvo, La scuola come contesto, prospettive psicologico- culturali, Carocci, Roma, 2010; S. Pirozzi e M. Rossi-Doria, La sfida per l’inclusione, in G. Benvenuto (a cura di), La scuola diseguale, dispersione ed equità nel sistema di istruzione e formazione, Anicia, Roma, 2011; C. Moreno – S. Parrello – I. Iorio (a cura di), La mappa e il territorio. Ripensare l’educazione fra strada e scuola, Sellerio, Palermo, 2014.
[4] E. Brighenti (a cura di), Ricomincio da me. L’identità delle scuole di seconda occasione in Italia, Trento, 2006, poi ripubblicato per Erickson, Trento, 2009 e C. Berazzoni (a cura di), Le scuole di seconda occasione in Italia vol II, Erickson, Trento, 2009
[5] Carlo Azeglio Ciampi, lettera ai ragazzi e alle ragazze di Chance, 21 maggio 2001.
[6] Il Piano del Comune di Napoli è sintetizzato nella pubblicazione dell’Istituto degli Innocenti – Centro nazionale infanzia e adolescenza, 15 città in gioco con la legge 285/97, in Pianeta Infanzia n° 14, febbraio 2000 pp. 191-2020, https://www.minori.gov.it/sites/default/files/Quaderni_Centro_Nazionale_14.pdf
[7] Cfr. Per i numeri dei minori coinvolti nel periodo indicato, si vedano i rapporti annuali del progetto Chance relativi alla legge 285/97, inviati al Comune di Napoli, uffici delle politiche sociali e copie degli stessi presso l’archivio personale di Marco Rossi-Doria.
[8] Cfr., Conseil de l’Europe, Direction Generale Cohesion Social, Projet sur l’integration sociale des jeunes dans les quartiers defavoris, etude de cas sur les Quartiers Epagnols (Naples), Analyse et recommandations à partir de l’expérience du projet CHANCE, Prof. Frédéric Lapeyre (Institut d’Etudes du Développement et Université Catholique de Louvain), septembre 2003.
[9] I PON derivati dagli FSE dell’UE, i fondi regionali, il fondo contro la povertà educativa minorile ammontano a molti milioni di €, tanti di più di quanto dispose Chance con la legge 285 del 1997, quando fu uno dei primi progetti in Italia a usufruirne. Se restano molte critiche da fare a come oggi avviene il flusso di denaro che raggiunge centinaia di progetti in campo che affrontano il tema strutturale della dispersione scolastica cosiddetta, meglio definita fallimento formativo, è, tuttavia, innegabile che Chance fu apripista nel considerare sostenibili i progetti che univano azione a scuola (e con cambiamenti o integrazioni nell’azione didattica ed educativa a scuola) e azione territoriale, nel quartiere, con le famiglie da allora fino ad oggi e al moltiplicarsi delle comunità educanti che uniscono scuole, cosiddetto Terzo settore (che è meglio chiamare imprese sociali e civismo educativo), enti locali, cittadinanze, nel solco della sussidiarietà (art.18 della Costituzione), in primo luogo il grande cantiere nazionale (750 partenariati, 900 enti pubblici e privati coinvolti, 550 mila minori raggiunti con le loro famiglie) creato dal Fondo per il contrasto della povertà educativa e attuato dall’impresa sociale Con i Bambini.
[10] Hobsbawm E., Ranger T., L’invenzione della tradizione, Einaudi, PBE 2002. Ma è simpatico un articolo più leggero, da L’internazionale, 2013, che cita Hobsbawn: https://www.internazionale.it/opinione/lee-marshall/2013/10/17/linvenzione-della-tradizione
[11] https://www.officinafilosofica.it/la-fabbrica-del-ricordo-di-felice-cimatti/
[12] Siri Hustevedt, Tre storie emozionali, in Vivere, pensare, guardare, Einaudi, 2012
[13] Id., Vivere, pensare, guardare,. Cit.
[14] Id.
[15] V. Gallese, Quel che so di Siri Hustvedt, prefazione a M. Cometa, La letteratura e il bios, Mimesis, 2022.
[16] “Voice” è concetto hirschmaniano. Sta a indicare non solo la parola, ma una dissidenza, fino al rifiuto, dell’offerta. Ma è, al tempo stesso, il presupposto di quella che anni dopo imparammo a chiamare “capacità di aspirare”. Che è ormai, anni dopo, un frame potentissimo per rinominare una finalità primaria del progetto e suo auspicabile, primario risultato.
[17] Ci riferiamo, in particolare al già citato scritto del Prof. Frédéric Lapeyre per il Consiglio dell’Europa e alla articolata e attenta tesi di dottorato svolta sul progetto Chance da parte della dott.ssa Valentina Ghione, presso il Dipartimento di Psicologia, Cattedra di Psicologia dell’Educazione dell’Università La Sapienza di Roma.
[18] G. Pasqui, Gli irregolari. Suggestioni da Ivan Illich, Albert Hirschman e Charles Lindblom per la pianificazione a venire, Franco Angelo, 2023. Ma tutto il libricino andrebbe letto.
[19] La risonanza per Hartmut Rosa è un’esperienza in cui ci sentiamo in sintonia con qualcosa di esterno a noi, come se ci fosse un’armonia, un’affinità che ci permette di “sentire” il mondo in un modo più profondo (dalla risosta AI della domanda a Google). Ma: Rosa H., Pedagogia della risonanza, Morcelliana, 2020. Un testo che, successivamente alla nostra esperienza, ci ha consentito di leggerla attraverso questa categoria. È un esempio di come quello che “veramente” è successo ci appare come “vero “anni dopo.
[20]Film del 1998 diretto da Peter Hewitt.
[21] Utilissima, a questo proposito, per chi scrive, è stata la lettura di F. Jullien, Trattato delll’efficacia, Einaudi, 1996.
[22] È necessario porre un fondamento linguistico all’uso di “complessità”. Ricorriamo a N. Stame: “semplice, complicato (composto di più parti che interagiscono in un modo prevedibile), complesso (composto di elementi che evolvono, con aspetti emergenti, e svolte inizialmente imprevedibili”, in Hirschman, il possibilismo e la valutazione, Colorni-Hirschman International Institute, https://effeddi.it/hirschman-il-possibilismo-e-la-valutazione/
[23] “Generativo” è un concetto forte della tradizione Chance e di policy successive che a Chance si ispiravano, che attraverso la progettazione di M. R. Doria ha provato a dare un imprinting a progetti come l’F23 contro la dispersione scolastica, provaci ancora Sam a Torino, le Comunità educanti.
[24] Su questo, sulla relazione non oppositiva fra vincolo e possibilità, tra la sterminata bibliografia sul tema, suggeriamo Ceruti M., Il vincolo e la possibilità, Raffaello Cortina, 2009.
[25] Su questo punto della de-istituzionalizzazione “affidata” ai tecnici (nel nostro caso: i docenti) vale la pena leggere De Leonardis – Emmeneger, Le istituzioni della contraddizione. Si trova in rete. “si è trattato soprattutto di un movimento di tecnici, di addetti al settore. Certo, esso ha attratto e coinvolto molte altre figure ed istanze critiche, e accolto diversi tipi di impegno politico e sociale. Ma al centro della storia c’è un mandato istituzionale – un potere espresso da un sapere tecnico certificato, una delega statuale al “lavoro su altri” [3], uno statuto pubblico dei luoghi e delle forme del suo esercizio”. E, a proposito del tema dell’apertura, l’apertura basagliana dell’istituzione, era un riferimento, forse inconsapevole, culturale molto forte. E oggi varrebbe la pena di mettere in tensione inclusione e apertura…
[26] Cfr. Jaques Delors – Crescita, competitività, educazione, Armando, Roma, 1993 – nel quale già viene messo in rilievo “l’andare verso chi è prematuramente caduto fuori dal sistema di istruzione e formazione”. In diritto internazionale la “Magna Charta” di riferimento, che prende in considerazione il droping-out, è la Convenzione dei diritti del bambino di New York – Risoluzione delle Nazioni Unite 44/25 del novembre 1989. Tale risoluzione è stata ratificata da quasi tutte le nazioni del pianeta. I due rami del Parlamento della Repubblica Italiana lo hanno ratificato, con voto unanime – quale trattato internazionale che entra a far parte della Legge italiana, nel 1991 (Legge 176/1991). Nella Convenzione ONU (v. art. 23, punto e), nell’allegato primo piano di azione 1990-2000 e nel secondo piano di azione 2001-2010, condensato nel documento “A world fit for children – Un mondo adatto ai bambini”, adottato dall’Assemblea Generale dell’ONU il 10 maggio, 2002 viene, più volte, presa esplicitamente in considerazione sia la categoria della non attendence o mancata scolarità sia la categoria del droping-out. In ogni caso è stabilito, come impegno prioritario per gli stati firmatari, la promozione della scuola pubblica obbligatoria per tutti i bambini e bambine, ragazzi e ragazze e l’attivazione di politiche di contrasto per ogni minore, considerato cittadino in crescita, che sia “caduto fuori” dal diritto e opportunità dell’istruzione, con tanto di dettagliate raccomandazioni, tutte ispirate all’”andare verso” il minore che cade fuori dall’istruzione. Questo approccio del diritto internazionale a favore dell’estensione del campo entro il quale ci si possa istruire e al fine di evitare o limitare il fenomeno del droping-out in ogni contesto e a livello planetario, viene rafforzato dalle Convenzioni C29, C138 e C182 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), a loro volta adottate dall’Assemblea Generale dell’ONU, approvate anche dal nostro Parlamento e che stabiliscono i nessi tra mancata frequenza a scuola e rischio di lavoro minorile nelle sue diverse forme, sanzionabili come sfruttamento. La Unione Europea (UE) ha interpretato il diritto internazionale in materia di politiche attive a favore di bambini e ragazzi in condizione di droping-out e di fallimento formativo precoce, proponendo, a più riprese, una serie di specifiche misure o pacchetti. In particolare si ricordano le raccomandazioni della Commissione per l’Inclusione Sociale per il periodo 2001-2010, premesse alla stessa allocazione dei Fondi sociali europei (FSE) e, ancor più nel dettaglio, i piani contro la povertà dell’UE e quelli dei singoli stati, Italia compresa, sulla base – per ciò che riguarda il fenomeno del droping-out – della dichiarazione contro la povertà di Bruxelles del 25/11/2002, nello specifico nei punti 1.1/b, 1.2/d e 3/b. E va altresì ricordato il benchmark di Lisbona della UE – su cui si basa gran parte della politica europea di contrasto al fallimento formativo – lì dove dice che “il numero dei giovani…. che non hanno finito gli studi né intraprendono altro tipo di formazione dovrebbe essere dimezzato entro il 2010”
[27] Mentre il Ministro della P.I. richiedeva, attraverso il Provveditorato agli Studi, mere tabelle numeriche sugli alunni coinvolti, il Ministero del Welfare prospettò un “dar conto” più largamente inteso. Ma dopo i primi quaderni 285/97 questa prospettiva si impoverì.
[28] S. Pirozzi, M. Rossi-Doria, Il viaggio dei maestri di strada, in AA.VV, a cura di C. Arcidiacono, C. Tuccillo, Ricerca interculturale e processi di cambiamento. Metodologie, risorse e aree critiche, Melagrana, 2010.
S. Pirozzi, M. Rossi-Doria, Pinocchio, alzati, che devi andare a scuola, in La scuola come contesto Prospettive psicologico-culturali, a cura di: Maria Beatrice Ligorio e Clotilde Pontecorvo, Carocci 2010
[29] Ota De Leonardis, sulla sofferenza urbana, imperdibile: https://www.youtube.com/watch?v=HfPEk8HQmzM
[30] Nella splendida sintesi di Carla M., l’assioma della significanza era il principio fondante per l’apprendimento. La significanza la decide il soggetto, nessuno la postula al di fuori.
[31] Trovate il saggio qui: https://www.sinapsi.unina.it/nuovaesperienza
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