In una realtà che quotidianamente manifesta violenza, opportunismo, individualismo autoreferenziale, superficialità, indifferenza, comportamento compulsivo e omologato, è necessario portare testimonianza di concrete esperienze che agiscono in valori aggiunti, con rigore, passione, profonda radice etica. Queste leve di forza sono vere e proprie costruzioni di pace, per usare un termine caro a Aldo Capitini: sono poetiche e politiche di resistenza e di nutrimento individuale e sociale.

Per la mia ricerca interiore e artistica, dentro cui l’incontro con persone in sofferenza è imprescindibile, si è acceso diversi anni fa il mio contatto con ANFFAS (Associazione Locale di Persone e Famiglie con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo) di Jesi, cominciando con la conoscenza di Silvano Sbarbati, poi del suo Presidente Antonio Massacci. La mia collaborazione è sorta come atto naturale inevitabile. Dopo molto lavoro, tessuto, da un nucleo appassionato di persone coniugate alla poesia e al fare consapevole (poiesis), non solo nella creazione della parola, ma anche di ogni relazione, soprattutto di quelle più complesse, è nato un progetto originale e di forte impatto sociale, filosofico, sociale, artistico: Corpo di/versi, il cui nucleo è un concorso di poesia. Il concorso si distingue nell’infinito panorama letterario nazionale poiché richiede la motivazione di chi partecipa e una propria poesia nel tema della corporeità e della diversità. Il premio assegnato a cinque vincitori offre il soggiorno per la partecipazione gratuita a un convegno finale.  

Quest’anno, siamo alla seconda edizione, il programma complesso del convegno si è svolto in tre giornate pienissime dal primo al tre settembre. Tra i relatori, oltre la mia presenza, ci sono stati Michele Cardinali con L’esperienza della poesia; Sebastiano Aglieco, con La presenza del fragile nella poesia; Corrado Bagnoli con Casa di vetro; arte e poesia, trasparenza fragile dell’essere; Giovanna Bonasegale con Una metà del Novecento: crisi e riformulazione del corpo nelle arti visive dal cubismo all’informale.

I relatori citati costituiscono la giuria del premio di poesia. Hanno accompagnato gli incontri diverse conversazioni e due laboratori: uno musicale, condotto da Leonardo Sbaffi e Alberto Napolitano, e uno sulla fotografia ideato e diretto da Giovanni Matarazzo. Non è mancato il teatro. Hanno portato i lori contributi i poeti: Marco Molinari, Marco Bellini, Leopoldo Lonati.  Non ultimo, il coinvolgimento della classe 4G, del Liceo Classico “Vittorio Emanuele II” Liceo delle Scienze Umane di Jesi coordinata dalla Professoressa Rosella Bartolini. Certamente, tutto questo in sintesi.

Propongo qui, l’apertura di Silvano Sbarbati, a cui molto si deve di questo viaggio, la conferenza di Michele Cardinali e il commento appassionato di Rosa Di Martino.

UN ACCELERATORE DI RELAZIONI INTERPERSONALI

Silvano Sbarbati

   Al termine dei tre giorni di lavoro di “Corpi di/versi”, alla ricerca di una sintesi di ciò che era accaduto (per me e da offrire a quanti erano con me a condividere quel momento) mi sono rivolto alla scienza della fisica nucleare e la metafora che ho trovato è stata quella di “acceleratore di relazioni interpersonali”.

   “Corpi di/versi” è un concorso di poesia e in quanto tale una macchina organizzativa che si allunga nel tempo, perché nei mesi che precedono la fase finale produce una serie di “particelle”: il regolamento del concorso, la sua promozione a livello nazionale, la costruzione dei contenuti degli eventi, il loro svilupparsi nel confronto, l’ideazione di momenti di scambio, la soluzione dei problemi di accoglienza. Ancor prima altre “particelle” sono quelle relative al coinvolgimento di persone singole, gruppi, scuole, aziende per svolgere un lavoro di lettura di testi poetici, con la responsabilità di selezionarne alcuni.

   Tutte queste “particelle” poi trovano posto nella macchina di un progetto-evento di tre giorni a cui sono chiamati, in veste attiva, i poeti selezionati, alcuni poeti che hanno pratiche ed esperienze sul tema del “Corpo (non) mente”, i componenti della giuria valutativa, professionisti di diverse discipline che esercitano uno sguardo sul corpo e le sue fragilità: medici, filosofi, storici dell’arte.

   Un acceleratore, in fisica, usa particelle per crearne altre e in fondo per risolvere problemi di tipo industriale, sanitario, etc. In fondo è un mezzo materiale per curare la materia.

   “Corpi di/versi”, per le sue dinamiche interne ed esterne è invece un mezzo non materiale (infatti usa la parola) per prendersi cura della particolare materia di cui è fatta una persona, tutta intera. Nella interezza del suo esserci al mondo, insieme.

   Il programma dei tre giorni (1,2,3 settembre 2023 a Jesi) prevedeva incontri sulla poesia, tra poeti, ma anche situazioni performatiche nate da un lavoro precedente coinvolgendo persone direttamente toccate dalla disabilità, e ancora sguardi sull’arte figurativa e la corporeità, oppure sulla fotografia o la musica “toccate” (per usare un verbo caro ad Anna Maria Farabbi che spesso ce lo ha segnalato) a loro volta in modo nuovo e originale. Difatti Giovanni Matarazzo ha aperto scenari originali e coinvolgenti rispetto al vedere con il mezzo ottico e la parola; Leonardo Sbaffi e Alberto Napolitano lo hanno fatto facendo condividere ai partecipanti una modalità corporea della notazione musicale trasformata in suono; Giovanna Bonasegale è riuscita in poco tempo a raffigurare il rapporto dell’arte contemporanea con la corporeità; Corrado Bagnoli, sulla stessa linea, ha tracciato la figura di un pittore alle prese con la fragilità dell’umano.

   Queste novità,     questo attraversamento di territori inesplorati ha messo talvolta in secondo piano il mostrarsi della poesia e però nel contempo ne ha fatto risaltare la sua potenza come acceleratore di relazioni umane.

   Ora dopo ora, tra gli incontri, nelle pause conviviali, negli spostamenti dentro gli spazi urbani, la funzione di acceleratore di “Corpi di/versi” ha mostrato la sua efficacia. E in quanto tale è riuscito a focalizzare il fascio delle sue radiazioni per ogni persona partecipante, laddove era più utile che avvenisse.  Voglio dire che ciascuno – per ruolo, per responsabilità, per disponibilità – ha assorbito la quantità di relazioni che era in grado di assorbire.

   Per questo la “reazione” è stata a catena: nel senso che il rispetto per la singolarità della persona come unicum ha permesso all’intero corpo dell’evento di trasmutarsi in progetto: quello del prendersi cura –  sforzandosi   di farlo nel modo più sereno e accogliente possibile.

   Senza trascurare – bisogna dirlo – quel tanto di imperfezione che ogni “materia” possiede. Né fingere troppo quel che non c’era – tanto per usare un verbo caro a Leopardi su cui si è sperimentato un laboratorio di scrittura (a cura di Sebastiano Aglieco) a partire dal suo “Infinito”. E non è mancata la politica praticata nell’incontro a domande (condotto dal giovane filosofo Michele Cardinali) con un medico ex assessore alla sanità della Regione Marche (Augusto Melappioni) con cui si è lanciato un grido di allarme sul fare comunità come necessità di vera salute. E non è mancata la sospensione silenziosa del pubblico – in una manifesta fragilità di spettatore –   dopo la performance di “Teatri fragili”: esperienza di teatreducazione su un testo dono che ho scritto per offrirlo   al corpo ed alla voce di quattro persone che sanno cos’è la fragilità del vivere con e accanto alla disabilità.

   “Corpi di/versi” è un acceleratore di relazioni. Questa accelerazione ha mostrato come la poesia possa trovare altri canali di trasmissione; o possa essere trovata attraverso altri canali che non siano quelli usuali e troppo praticati della competizione sulla base di, del premio che valuta il, della premiazione che solletica il bisogno del rito del riconoscimento.

   “Corpi di/versi” si è mossa infatti avendo come supporto al necessario momento della scelta selezionante, quello della motivazione: chi partecipava aveva l’obbligo, accanto ai propri versi, di presentare una propria motivazione argomentata e valida come elemento di selezione.

   Alla fine, chi è stato selezionato ha “vinto” l’impegno a diventare particella da immettere nell’acceleratore di relazioni umane; una opportunità di essere materia per far nascere altra materia.

   Concludendo: per trarre a riva un concetto utile a pensare “Corpi di/versi” in avanti nel tempo, nei limiti di un luogo, e di un tempo, e delle risorse umane e materiali… credo valga immaginarlo come un progetto che da materia crea materia. In altre parole, un dispositivo che si auto-produce e che, pur nella fragilità di una esperienza appena biennale, contiene il seme germinativo del mutamento.

Accelerando le relazioni si rischia sempre una trasmutazione…

Silvano Sbarbati
(coordinatore)

L’ESPERIENZA DELLA POESIA

Michele Cardinali

1. Che esistano dei rapporti intimi tra filosofia e poesia è oramai storia vecchia. Rapporti non sempre pacifici, ma il più delle volte reciprocamente fertili. Una certa tradizione del pensiero filosofico occidentale è arrivata fino a noi sotto forma poetica e, altrettanto, non sono mancati filosofi o filosofe che hanno interrogato il fenomeno della poesia.
Basti pensare a Eraclito, il filosofo oscuro, del quale sono arrivati a noi solo frammenti in forma aforismatica o di versi brevi; a Platone, per il quale la poesia costituisce un potere concesso dalla Musa che rende il poeta privilegiato e indemoniato al tempo stesso quando è preso dall’ispirazione divina; ad Aristotele che, nella Poetica, accosta la poesia alla filosofia e propone un confronto tra il lavoro del poeta e quello dello storico – laddove per poesia, Aristotele pensava soprattutto alla tragedia – affermando che «lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di parlare l’uno in prosa e l’altro in versi […], ma differiscono in questo: che l’uno racconta le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero succedere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare»[1].
Il rapporto tra poesia e filosofia, se si tralascia un’opaca parentesi tardo medioevale e moderna che talvolta si è rifugiata nella mistica, con il Novecento ha rivisto una nuova luce. Penso alle riflessioni di Martin Heidegger, Walter Benjamin, Maria Zambrano, Simone Weil, fino a Giorgio Agamben per il quale «non c’è poesia senza pensiero, e non c’è pensiero senza un momento poetico»[2]. Pur partendo da premesse, linguaggi e metodi differenti, entrambe sembrano tendere a uno scopo comune: accedere al senso e restituire, in modo sorgivo, la realtà di cui si occupano e sono parte.
D’altro canto non si può tralasciare il fatto che, sebbene abbiano continuato a strizzarsi l’occhio, o magari a sovrapporsi nelle possibilità del linguaggio che si è fatto “pensiero poetante”, negli ultimi due secoli la poesia è perlopiù diventata oggetto della filosofia, una materia di indagine, e che ha intercettato ulteriori discipline in quella che, nei primi del Novecento, si è presentata timidamente come una Filosofia della poesia.
Mentre la filosofia, insomma, sembra essersi posta al di sopra, la poesia ha mantenuto invece un rapporto aperto e di incontro; è diventata materia politica, di rivendicazione, si è fatta manifesto sociale meticciandosi, scompaginandosi e intrecciandosi al magma del pensiero, con un movimento centrifugo piuttosto che verticale e gerarchico. La filosofia ha proceduto a volo d’uccello rispetto alla poesia, mentre questa ha continuato a camminare per le strade. La filosofia, talvolta, si è pure arroccata nella torre d’avorio delle accademie; la poesia è stata scritta sui muri delle città, è uscita e ha riempito di immagini poetiche anche le stazioni metropolitane impregnate di urina, dove di notte trovano casa i clochards.

2. Di fronte a questo mea culpa che la filosofia forse dovrebbe accennare nei confronti della poesia, insorge una domanda. Una domanda che, oggi, sento particolarmente mia sapendo che mi sto rivolgendo anche a delle care amiche e amici poeti. Perché uno studioso di filosofia dovrebbe occuparsi della poesia? Cosa avrebbe da dire ancora la filosofia? E soprattutto, la domanda che mi preme personalmente: perché della poesia ne dovrebbe parlare qualcuno che poeta non è, o che al massimo ricorre alla scrittura poetica in extremis, fuggendovi tra le due e le tre di notte, prendendo in mano una matita stemperata, un foglio qualsiasi sul comodino, e scrivendo dei versi solo per silenziare quelle voci notturne che danno spazio all’insonnia?
In poche parole: con quale coraggio vengo qui a parlare dell’esperienza della poesia sapendo di essere solo un cittadino della poesia e non anche un suo rappresentante? Mi sento di rispondere con le parole di George Canguilhem quando affermava che «la filosofia è una riflessione per la quale ogni materia estranea è buona, anzi – aggiungeva – potremmo dire: per la quale ogni buona materia deve essere estranea»[3]. La mia discreta estraneità alla scrittura poetica fatta in prima persona mi rende la stessa produzione poetica un tema affascinante, da scorgere con gli occhi curiosi di chi vede il mondo per la prima volta. Nel farlo, spero di non riproporre troppo l’errore di guardarla dall’altro prescindendo dal cuore pulsante delle sue possibilità vive.
Per questo vorrei oggi interrogarmi sul fenomeno della poesia portando la cassetta degli attrezzi della fenomenologia. Ovvero di un approccio filosofico che ha sempre cercato di entrare negli interstizi delle cose per coglierle nella loro essenza più radicale e per descriverle penetrano in esse, lasciando le prospettive a volo d’uccello ad altri. Credo che interrogarsi sull’esperienza della poesia, e analizzare le condizioni della scrittura poetica, sia qualcosa che può interessare non solo i poeti, ma chiunque voglia sconfinare la poesia stessa, andando al di là del bel verseggiare per farla diventare strumento di incontro, relazione, di confronto e, forse, fonte di cura e attenzione altrui, come si propone di fare PoJesis.

3. Per farlo, parto da due premesse. La prima riguarda la cornice di riferimento individuata quest’anno per il nostro seminario, che titola Il corpo (non) mente, dove il non è messo tra parentesi.
Sono almeno tre le possibili interpretazioni che possiamo a dare questa dicitura.
(a) Nel primo senso, possiamo togliere la negazione tra parentesi, considerare la parola mente un verbo e intenderla in questo mondo: il corpo mente. Come se il corpo fosse bugiardo, menzognero, ingannevole. Un corpo che falsifica la sua verità più celata o ciò che crediamo di cogliere in lui. In questo senso, il corpo sembra sottoposto a un processo di accusa, perché in fondo la menzogna va sempre stanata, interrogata e forse condannata, anche quando sembra farlo con le buone intenzioni. Noi sappiamo di poter mentire. Ciascuno in questa stanza, anche in questo preciso momento, può fingere col corpo di essere interessato a ciò che sto dicendo, fingere di non provare ribrezzo per l’odore che emanano le altre persone, soprattutto quando è caldo. Ognun può mentire spudoratamente sulle proprie credenze politiche, religiose, sul fatto che questa sala sia più o meno accogliente, più o meno idonea ai nostri scopi.
Il corpo può dimostrarsi partecipe e attento quando in realtà è distratto e vorrebbe fuggire. Col corpo siamo qui, ma con tutto noi stessi siamo letteralmente altrove e intimamente si pensa: ma dove sono capitato? Per fortuna possiamo smorzare questi pensieri insolenti, nasconderli dietro certe posture sociali. È vero: il corpo è capace di mentire e talvolta per fortuna può farlo!
Inoltre, non solo per gli altri, non solamente pubblicamente, ma può mentire anche a noi stessi: tradirci sul piano più intimo e privato, come quando crediamo di star bene, il corpo ci illude di poter affrontare una sfida, di arrivare a fine giornata, di riuscire a sopportare l’ennesima scocciatura, anche se poi, all’ultimo, si dimostra esausto, sfinito, cede. Molte malattie psicosomatiche, svenimenti improvvisi o perfino disturbi cognitivi che implicano una percezione distorta della realtà possono essere esempi nei quali il corpo mente a se stesso. Ma sebbene sia vero che la capacità di mentire appartenga al corpo, tuttavia non è vero che il corpo mente sempre. Non è il suo unico statuto, se non uno statuto parziale e provvisorio. E ciò non mi permette di accogliere appieno questo primo senso.
(b) Veniamo così al secondo, che non toglie la negazione tra parentesi, non toglie il (non), anzi afferma la negazione: il corpo non mente. Come a dire che il corpo è depositario di una verità, è onesto, sincero, non ci illude mai, perché in fondo il corpo saprebbe sempre dire di più, o perfino meglio, di quanto le parole non riescano a dire. Un po’ come quando vediamo un attore in scena che vorrebbe fingersi vecchio, giovane, malato, inquieto o esuberante, eppure qualcosa fa fallire la sua intenzione e fa attrito nel nostro sguardo. È un attore che non sa recitare, perché il suo corpo non mente: lui è qualcos’altro o qualcun altro, in realtà. Può accadere di sentire un politico parlare, ma il suo discorso non ci convince. Un medico ci dice di star tranquilli, nulla di cui preoccuparsi, anche se la sua espressione lo tradisce. Oppure un amico che di fronte alla nostra automatica e inflazionata domanda come stai? risponde bene, quando in realtà un alone di nebbia nera lo avvolge: il corpo non mente, come invece ha fatto il suo discorso. Anzi, il corpo, per non mentire, arriva al punto di tradire una sua parte: la bocca.
Anche in questo caso possiamo leggere il non mentire del corpo sia sul piano pubblico che privato. Sono i casi in cui il corpo ci dà degli alert, ci mette in guardia, ci dice di accelerare o fermarci, di ascoltarlo e rispettarlo. Talvolta si rivela anche in modo inconscio. Basti pensare ai lapsus o a quelli che Freud chiamava atti mancati[4] dove il corpo non mente circa i suoi desideri più reconditi, ma si palesa in modo inconsulto e ci intralcia imprevedibilmente: come quando a una festa ci interessa qualcuno, a cui vorremmo fortemente parlare, anche se una certa timidezza, un riserbo o un’inspiegabile ritrosia ci spinge a non farlo. Così, quando stiamo per lasciare la festa e salutare tutti, non si sa come, non si sa perché, ma la nostra mano urta accidentalmente il bicchiere della persona interessata, che cade a terra, si rovescia e si rompe, costringendoci a fermarci, rimediare, scusarci, e finire col parlare proprio a quella persona. Nel segreto di un movimento distratto, il corpo non mentiva il suo desiderio: quello di man-tenere l’altro, tenerlo in mano col proprio discorso. È quel desiderio sotteso che ha spinto la mano ad allungarsi, dove al contrario la volontà non riusciva nemmeno ad affacciarsi. Questi casi mostrano che il corpo, a volte, può anche farsi rivelatore, dischiudere una verità che altrimenti resterebbe inaccessibile.
Così sarebbe vero che il corpo può fare sia l’una che l’altra cosa: può mentire e dire la verità, nasconderla e disvelarla. E poiché può fare sia l’una che l’altra cosa, allora risulta convincente la messa tra parentesi della negazione, in quanto il corpo vive di ambivalenza – mente e non mente – così come noi stessi abbiamo col nostro corpo un rapporto ambivalente inscritto in quell’ambiguità lessicale tra l’avere e l’essere corpo in cui ci scopriamo soggetti e oggetti a noi stessi. Siamo un corpo e lo abbiamo, tocchiamo il corpo come soggetti attivi e siamo toccati da esso come oggetti passivi. Siamo il corpo che abbiamo dal punto di vista del soggetto, perché il corpo circoscrive i confini della nostra identità personale; al contempo abbiamo il corpo che siamo dal punto di vista dell’oggetto, perché il corpo può essere visto, preso o maneggiato al pari di una cosa. Come affermano Costa e Cesana: «da una parte il nostro Io vive nel corpo, è un sé corporeo, dall’altro questo corpo vivo è intrecciato con un corpo fisico che gli può “stare di traverso”, sicché è attraverso il corpo da un lato che ci soggettivizziamo, ma dall’altro ci oggettivizziamo»[5]. Dire che il corpo mente e non mente, vuol dire riconoscere che il corpo può diventare oggetto di menzogna e al contempo farsi un soggetto menzognero.
(c) A questi due sensi, si aggiunge la terza interpretazione, che a me interessa. Togliendo il (non) tra parentesi, e dando alla parola mente non il valore di verbo, ma di sostantivo, allora la dicitura il corpo mente assume tutto un altro significato. Se la mente è quella dimensione cognitiva in cui si addensa il pensiero e dove l’immaginazione trova spazio, allora il corpo mente vuol dire pensare al corpo come un tutt’uno con la mente e la mente come un tutt’uno col corpo. Il corpo-mente, appunto, scritto con un trattino in cui coesistono l’uno e l’altro. È questo terza interpretazione che mi preme portare avanti, tanto più per analizzare l’esperienza della poesia, e questo mi porta alla seconda premessa, più breve.
Se pensiamo a una poesia mi pare si abbia una diffusa tendenza a considerarla come il frutto di una certa sensibilità mentale nata dall’intelletto del poeta. Come se una poesia fosse semplicemente il prodotto culturale di un’idea messa in versi, un’immagine mentale trascritta su carta, la proiezione della sensibilità passata per il filtro del pensiero. Tant’è vero che, se chiedessi a qualcuno di dirmi qualcosa sulla rilevanza del corpo nella poesia, probabilmente molti mi indicherebbe dei componimenti dove il corpo è presente come tema centrale; mi parlerebbero di quei poeti che hanno fatto del corpo un oggetto di riflessione, mentre la poesia continuerebbe ad essere considerata come un prodotto intellettuale e non come qualcosa che il corpo ha scritto. Insomma mi parlerebbe del corpo nella poesia e non dell’importanza del corpo per la poesia[6]. Se però assumiamo il terzo significato di cui parlavo, il corpo-mente dove mente e corpo ineriscono l’una all’altro, allora si presenta la domanda per me centrale: che ruolo ha il corpo nella scrittura poetica?

4. Parlare del corpo, per me che adotto i contributi della fenomenologia, significa parlare non di un apparato fisico che custodisce al suo interno un insieme di organi, funzioni, che esprime capacità e proprietà fisiologiche. Non significa neppure concepire il corpo come l’involucro della mente, ciò che preserva e racchiude la voce silenziosa del pensiero.
Senza ripercorre le varie ragioni storiche, è sufficiente dire che una certa tradizione filosofica prima (alimentata da Platone e Cartesio) e un certo pensiero scientifico di tipo positivista e materialista, poi, hanno terribilmente dissociato il corpo dalla mente, quasi fossero due sostanze isolate. È proprio questa l’idea di Cartesio quando distingueva nettamente la res extensa (la cosa estesa) propria dei corpi, dalla res cogitans (la cosa pensante) propria della riflessione. Sono stati necessari secoli, ricchi studi in campo fenomenologico, neuroscientifico e medico-psichiatrico, per disconfermare questa errata credenza che divideva e opponeva il mentale dal corporeo.
Un’idea tanto fallace quanto paradossale se si pensa al rapporto che quotidianamente abbiamo col nostro corpo che non è il più delle volte impersonale e di mera utilità come quello che potremmo avere con un oggetto. Il nostro corpo non è l’esecutore di un comando proveniente dalla mente, ma ciò attraverso il quale esperiamo il mondo, che istruisce e trova nella mente un punto di raccordo. Altrettanto, la coscienza non è qualcosa che resta indifferente al fondo che il corpo gli fornisce, anzi la coscienza proprio su questo fondo corporeo trova il materiale di cui ha bisogno. Motivi che ci fanno capire quanto l’essere umano non sia una mente che abita un corpo, né un corpo che avvolge le increspature della mente. Ciascuno di noi è piuttosto una coscienza incarnata, o un corpo coscienziale, nel quale corpo e mente rappresentano la diffrazione di uno fenomeno unitario. Corpo e mente non sono scissi, ma costituiscono un chiasma di rimandi reciproci.

5. Grazie al corpo noi facciamo esperienza del mondo: un’esperienza che ci fa sentire parte di esso, suoi abitanti vivi, non un corpo nello spazio, come fosse un oggetto sulla scrivania. Ciò che differenzia il nostro corpo da qualsiasi altro corpo (nel senso di corpo materiale, oggettivo, cosa inerte e disincarnata) è il fatto che il nostro corpo è sempre un corpo vivo[7]. Il che significa: che sa percepire e incorporare nell’esistenza qualcosa di significativo, poiché un significato incarnato è sempre racchiuso o anticipato nei rapporti che il corpo intrattiene col mondo. Per meglio dire: il nostro corpo non agisce al pari di una macchina, ne è uno strumento di esecuzione, ma è un concentrato di significati viventi che, grazie alla percezione, trova nel mondo ulteriori significati di cui si nutre, che lo costituiscono e ai quali risponde con i suoi rimandi.
Qualche esempio: vedere una panchina in lontananza quando si è stanchi ce la fa percepire come un luogo di ristoro, non solo come un oggetto di legno, la panchina esprime un significato che ci attrae quanto più sentiamo le gambe cedere; bere dell’acqua non vuol dire inserire dei liquidi nell’organismo per equilibrare i parametri fisiologici, ma per il corpo vivo, bere, vuol dire fare esperienza dell’acqua fresca, dissetarsi e lasciarsi alle spalle l’inquietante esperienza dell’arsura. Così mangiare non vuol dire introdurre delle sostanze, ma gustare una qualità di essenze; respirare vuol dire far prendere aria alla ruminazione mentale; camminare significa contemplare il paesaggio o lasciare a casa i problemi; innamorarsi vuol dire vedere di fronte a sé un orizzonte di progetti, per il presente e il futuro, che resta impercettibile agli altri.
Il corpo vivo, quindi, esperisce nel mondo dei significati perché nel mondo stesso li trova in modo accessibile: non li vede solo con la mente, ma li incorpora. Per questo comprendiamo, con Merleau-Ponty, quanto «l’uomo non sia uno spirito e un corpo, ma uno spirito con un corpo, e che egli accede alla verità delle cose solo perché il suo corpo è come conficcato in esse»[8]. Non solo non c’è discontinuità tra corpo e mente, ma dal punto di vista del corpo vivo che abita il mondo, possiamo dire, con Le Breton, che «tra la carne del mondo e la carne dell’uomo non vi è alcuna frattura, bensì una continuità sensoriale sempre presente»[9]. Il corpo vivo è ben più che uno strumento materiale, ma la condizione per abitare il mondo, nutrirsene, impastarsi con esso e farne esperienza.

6. Veniamo così alla nostra domanda. Se attribuiamo al corpo questo differente statuto, che di fatto appartiene al modo di vivere umano, ecco allora che il fenomeno della scrittura poetica si illumina di differenti prospettive. Scrivere una poesia non significa più semplicemente mettere su carta un’idea, né creare un prodotto culturale che scaturisce dall’immaginazione vivifica della mente. Ma, nella misura in cui il corpo vivo – il corpo-mente che siamo – fa sempre una certa esperienza del mondo, allora la poesia può essere considerata come il tentativo di dar conto, trascrivere, tracciare i profili di questa esperienza incarnata; anche quando la poesia si avventura nel descrivere qualcosa di immaginario se questo “immaginario” continua a far parte dei significati dell’esistenza.
Senza un corpo vivo che in prima battuta esperisce, la poesia non potrebbe essere scritta, né letta, come qualcosa di altrettanto vivo e vitale, ma al massimo come l’artificio retorico, più o meno tollerabile, di una parola morta. E senza un corpo vivo di fondo, che accomuna scrivente e lettore, nemmeno si potrebbe parlare di una esperienza della poesia quando la si legge, cioè quando certe immagini significative, o certi vissuti di chi scrive, vengono trovatati da chi li legge come in una corrispondenza sulla quale attraccarsi.  

In altre parole, il corpo ha una rilevanza da non trascurare nella produzione poetica: ma non soltanto perché, molto banalmente, con il corpo si scrive, con la mano si disegnano i versi o con le dita si batte sulla tastiera; ma perché ogni poesia pare radicata nel tessuto d’esistenza di un corpo e istruita dall’esperienza che il corpo vivo fa nel mondo. La poesia sembra offrirsi come una materia pulsante e sanguinante di senso solo quando continua a mantenere un certo rapporto incarnato.

Nel 1912, Umberto Saba scrisse un articolo per il giornale La voce, mai pubblicato, in cui si chiedeva Quel che resta da fare ai poeti? Ed egli rispondeva: «ai poeti resta da fare la poesia onesta»[10]. L’istanza di Saba non è molto lontana da questo discorso, in cui l’esperienza incarnata costituisce la condizione di possibilità per una poesia onesta e credibile. Per una poesia, aggiungo io, che non prescinde dall’esistenza concreta e dalla mediazione che il corpo gli offre. E tengo a precisare: il suo corpo intero, il suo corpo-mente, non semplicemente la sua “pancia” o quella imprecisata suggestione che scaturisce ingenuamente dalle emozioni sparse.
Dal punto di vista di chi legge la poesia, Gaston Bachelard, uno tra i più importanti epistemologi francesi del secolo scorso, ha posto un’importante differenza in questo senso tra quella che definisce la risonanza poetica e il retentissement – termine intraducibile in italiano, se non come un riecheggiamento, una specie di ripercussione nella memoria corporea – quando afferma che mentre «le risonanze si disperdono sui differenti piani della nostra vita nel mondo, il retentissement ci invita ad un approfondimento della nostra esistenza. Nella risonanza sentiamo il poema, nel retentissement lo parliamo, è nostro. Il retentissement opera un cambiamento d’essere: l’essere del poeta sembra diventare il nostro»[11]. Possiamo dire che, nella lettura di una poesia, mentre la risonanza rappresenta un sentimento privato che si disperde poco dopo la sua nascita, con il retentissement possiamo scorgere quanto di comune e reciproco esiste nella poesia, anche quando la si legge privatamente, perché comune e reciproco è il sostrato dei significati che scaturiscono dal corpo vivo di chi scrive. La risonanza è singolare, il retentissiment è un sentire del singolo che si riconosce in una eco comune e plurale: infatti, sempre per Bachelard, «la molteplicità delle risonanze nasce dall’unità d’essere del retentissement»[12]. Ecco perché “la pancia” non è sufficiente, ma è necessario l’intero esserci.
E in questo senso, nella Fenomenologia della percezione, anche Merleau-Ponty, crede che «la poesia reca nella mente del lettore una seconda esistenza che definisce come poesia […ovvero] la poesia è una modulazione dell’esistenza [… la quale] trova nell’apparato poetico il mezzo per eternarsi. […] Un romanzo, una poesia, un quadro, un brano musicale sono individui, cioè esseri in cui non si può distinguere l’espressione dall’espresso, il cui senso è accessibile solo per contatto diretto e che irradiano il loro significato senza abbandonare il proprio posto temporale e spaziale»[13]. Ovvero quello spazio-tempo che sono le condizioni fondanti di un corpo vivo che esperisce.

7. Questi ultimi aspetti ci permetterebbero di riflettere su quanto la poesia non sia solo la scrittura di una certa esperienza nel tempo del vivere, ma anche la scrittura di una certa esperienza di luogo. Non a caso, nella sua opera La Poetica dello spazio, Bachelard si era interrogato non tanto su come nasca la poesia, bensì dove nasce, in quale luogo. E sebbene egli credeva che la poesia nascesse negli spazi dell’intimità (la casa, la cantina, la soffitta, il nido, il cassetto, il guscio), personalmente credo tuttavia che la questione meriterebbe un approccio più radicale, che risalga all’origine. La considerazione di questi luoghi può avvenire solo perché è la mediazione corporea a farceli incontrare in un certo modo. Prima dei luoghi e della creazione delle immagini poetiche, c’è un’esperienza del corpo che vive dei luoghi[14] nei quali prendono forma le immagini poetiche.
Per concludere: non basta dire che una poesia è il prodotto di una mente sensibile; nella poesia non si realizza semplicemente «la veduta forma che s’intende»[15], traslando Cavalcanti. Poiché ogni scrittura d’arte è istruita dal corpo vivo, la poesia potrebbe essere considerata proprio come la restituzione di un’esperienza di vissuto. Ovvero di quella esperienza corporea che, pur nella diversità, ci fa riconoscere anche attraverso i secoli e ci fa comprendere le parole di Dante quando scriveva «caddi, come corpo morto cade»[16].
In fondo, mentre la narrativa è un’estensione, dispersa nelle pagine del racconto, la poesia è un’intensità alla quale si partecipa, come corpi radunati. E se la poesia si dimostra radicata nel corpo del poeta, allora anche chi legge potrebbe farne esperienza riconoscendosi come conficcato in essa, forse radicato nella terra di un corpo comune.

Poggio San Marcello,
30 agosto 2023

Michele Cardinali


[1] Aristotele, Poetica, 1451b, tr. it. di D. Guastini, Carocci, Roma 2010.

[2] Cfr. G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata 2016.

[3] G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino, 1998, p. 9.

[4] Il concetto viene definito anche come paraprassia, atto sintomatico o lapsus d’azione. Il termine tedesco impiegato da Freud è Fehlleistung (azione difettosa) e la causa scaturirebbe da un conflitto nevrotico tra la possibilità di fare un’azione e non farla. Cfr. S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

[5] V. Costa, L. Cesana, Fenomenologia della cura medica. Corpo, malattia, riabilitazione, Scholè- Morcelliana, Brescia 2019, p. 116.

[6] In quanto il corpo costituisce una dimensione imprescindibile anche per la strutturazione del linguaggio – di cui la poesia ne è una forma – Lacan credeva che «il corpo non è regolato soltanto da strutture biologiche, ma è suscettibile di incarnare, nel senso forte del termine, l’ordine del linguaggio» (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI, [1954-1955], Paris 1978, p. 38).

[7] Tra le caratteristiche del corpo vivo, Toombs individua: l’essere nel mondo, l’intenzionalità corporea, il significato primario, l’organizzazione contestuale, l’immagine del corpo, la visualizzazione gestuale. (Cfr. S. K. Toombs, The Meaning of Illness. A Phenomenological Account of the Different Perspectives of Physician and Patient, Springer, Dordrecht 1992).

[8] M. Merleau-Ponty, Conversazioni, SE, Milano 2002, p. 29.

[9] D. Le Breton. Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi. Raffaello Cortina, Milano 2007, p. XI.

[10] Un estratto dell’articolo di Saba è presente in S. Guglielmino, Guida al Novecento, Principato, Milano 1971, p. 254.

[11] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 2015, p. 12.

[12] Ibidem. [Traduzione leggermente modificata per rispettare la versione originale in francese che, nella traduzione italiana, si dimostra imprecisa].

[13] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2019, p. 215-216.

[14] Riprendo la formula sul vivere nei luoghi e dei luoghi dal lavoro di riflessione di Danani. Per un approfondimento sulla rilevanza dei luoghi nell’esperienza cfr. C. Danani, Abitanti, di passaggio. Riflessioni filosofiche sull’abitare umano, Aracne, Roma 2013.

[15] Cfr. G. Cavalcanti, Donna me prega.

[16] Cfr. Dante, Inferno, canto V.

TORNANDO A JESI L’ANNO SUCCESSIVO

Rosa Di Martino

Nel mio biglietto di ritorno da Jesi il 4 settembre del 2022, c’era, annesso, un voucher: un dono. Un dono di parole, di suoni, di persone e di storie, incartato col filo del respiro, quello che si fabbrica nei cantieri dell’anima, che ha il profumo del gelsomino che si espande – in dono gratuito – al mondo.

“Corpi di/versi”, l’anno scorso, è stato tutto questo: un concorso di poesia il cui premio per i selezionati (non vincitori, ma selezionati!) erano le sillabe, le parole. Parole che sono state imparate, composte, recitate, cantate, restituite. E poi portate a casa, dentro la quotidianità di ciascuno, per essere spezzate e fatte germogliare nella mente e nel cuore di altre parole. Tutto questo è accaduto attraverso un corso di scrittura creativa, organizzato dal gruppo PoJesis, perla nata dentro l’Associazione Anffas.

Attorno ai “selezionati”, hanno orbitato insegnanti, scrittori, poeti, musicisti, giornalisti, componenti del gruppo e dell’Associazione sotto la supervisione del coordinatore Silvano Sbarbati e del presidente Antonio Massacci.

Tutti ci hanno dato tanto.

È stato anche un incontro di anime sensibili, che conoscono la “diversità” perché la vivono o la scrivono, di rispetto e di intenso scambio emozionale.

Il dono ricevuto ha preso corpo, dentro me ed è cresciuto con il desiderio di divenire gesto gentile. Così è stato. Allora, quest’anno ho preso due biglietti di andata per Jesi – PoJesis – Anffas. Il primo è stato un consistente contributo offerto da me e dai miei amici, attraverso una mia raccolta di poesie. Il secondo è stata la gioia di ritornare, partecipando come pubblico alla seconda edizione, non quindi come selezionata, ma come segno tangibile di un esperimento riuscito: la mia voce, il mio corpo, la mia presenza perfettamente intrecciata al progetto della “poesia del prendersi cura”.

Oggi, alla fine del convegno, ritorno a casa, nel mio paese, Santa Caterina Villarmosa, ombelico della mia terra, la Sicilia, e torno ancora più ricca dell’anno scorso.

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