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“La vita è un viaggio, chi viaggia vive due volte.” Così Omar Khayyam (1038-
1131) interpreta il significato del viaggio, inteso nel senso forte del termine: il viaggiatore in effetti vive più intensamente, mentre arricchisce il proprio universo di inusitate esperienze e mondi ulteriori.

Il viaggio la fa da protagonista nell’arte e nella letteratura, anche perché ha il fascino dell’archetipo e risveglia antiche, aurorali sensazioni, ormai sopite nell’inconscio collettivo. Nella sua profonda radice mitica scorre ancora linfa vitale: si può dire che è uno dei pochi miti sopravvissuti allo tsunami tecnologico e multimediale, perché mantiene una sottile aura di sacralità, a differenza di altri miti, trasformati ormai in stanchi rituali. Come ad esempio le feste (un evento di probabile origine bacchica), di cui scrive Charles Baudouin, in Psicoanalisi del Simbolo Religioso, con parole di sapore vagamente felliniano: “Ai nostri giorni, il significato delle più belle feste tende a perdersi (…) noi cadiamo a poco a poco nella bassa giovialità dei festaioli… Perché una festa viva, perché sia capace di gioia, bisogna che sia presa sul serio, che conservi, almeno in un angolo del cuore, qualche cosa del suo senso sacro. Così la domenica è comunemente divenuta triste nelle nostre città, perché, per un gran numero, essa ha perduto il suo senso; non vi si vede che un’occasione per divertirsi, ed è molto noioso: la stessa specie di noia che grava sui ‘party di famiglia’, là dove la famiglia non esiste più! Lo stesso avviene sovente delle feste di fine d’anno. La tristezza particolare delle feste abbandonate – dissacrate – non si comprende bene che quando si riconosce la sorda nostalgia di una vera festa…” Che è poi la nostalgia di un tempo immemoriale, estraneo al nostro dualistico mondo social-interiore, che ci ha allontanato dalla natura, fonte di miti ancestrali e sacralità. In tal senso il viaggio si può considerare un ponte lanciato sopra l’abisso verso nuovi (e al tempo stesso antichi) continenti dello spirito, un’avventura tanto più intensa quanto più ricca di eventi impredicibili (solo ciò che è oscuro stimola al profondo), o rischiosa oltre i limiti dell’incalcolabile (come ad esempio accade con certo alpinismo, nei solitari attraversamenti dell’oceano, ecc.). Innumerevoli sono i tipi e le finalità dei viaggi e dei viaggiatori. Il poeta greco Konstantin Kavafis, nel poema Itaca, esprime il concetto secondo cui è il viaggio che conta, non l’arrivo. Dunque non si deve avere fretta di giungere a destinazione, alla propria ‘Itaca’, ma bisogna mettere a frutto tutte le possibilità di esplorare il mondo, crescere intellettualmente e riempire di ‘souvenirs’ il proprio bagaglio culturale…La meta potrà deludere, ma non il viaggio: qualcuno ha definito questo atteggiamento ‘ulissismo’, con chiara allusione al XXVI canto dell’Inferno dantesco, che narra di Ulisse quando decide di attraversare le famigerate Colonne d’Ercole (dov’è la celebre terzina “Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e conoscenza”).

Così Kavafis conclude il testo succitato:
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Un’altra poesia, La Città, dello stesso autore, è per certi versi un monito per chi
vede nel viaggio una fuga da se stesso, o una sorta di escapismo:

Non troverai altro luogo, non troverai altro mare.
La città ti verrà dietro. Andrai vagando
Per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere.
Imbiancherai in queste stesse case. Sempre
Farai capo a questa città. Altrove, non sperare,
Non c’è nave, non c’è strada per te.
Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
Tu l’hai sciupata su tutta la terra.

Una singolare tipologia di viaggiatore, poi, o per l’atmosfera psichica di un certo luogo, o per la tropicale voluttà della vegetazione, o per altri particolari del paesaggio (“le città il cui rumore ho amato come un corpo”- Pessoa), trova in ciò una sorta di terapeutica condizione mentale, talché tende a ritornarvi sistematicamente, per ritrovare la propria identità e/o fuggire dal caos della vita ordinaria. A qualcosa del genere allude, in un suo racconto (Il Delta al Tramonto), J. G. Ballard: “Fra questi cubi avete trovato un’immagine di voi stesso libera dai rischi del tempo e dello spazio. Quest’isola è un Eden ontologico, perché cercare di espellervi in un mondo di flusso quantistico?” Ripetere lo stesso viaggio è comunque significativo, ed è analogabile alla fruizione ripetuta dello stesso testo, o di altra opera d’arte che, secondo Lotman, è sempre diversa dalla precedente e rivela l’evoluzione della coscienza del fruitore. In tutti i casi, dopo aver molto viaggiato, si coglie sempre un vago filo conduttore, che lega itinerari e tematiche apparentemente distanti tra loro o non immediatamente connettibili. Un leit motiv diverso da viaggiatore a viaggiatore, come diversa ne è la filosofia in argomento: “La vita è la più bella delle avventure, ma solo l’avventuriero lo scopre” (Condorcet); “La meta è partire” (Giuseppe Ungaretti); “Chi non si muove non può rendersi conto delle proprie catene”(Rosa Luxemburg); “Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone” (John Steinbeck); “Non c’è uomo più completo di colui che ha viaggiato, che ha cambiato venti volte la forma del suo pensiero e della sua vita” (Alphonse de Lamartine). Diversamente, scrive Alexander Griboyedov: “Cosa vuol dire avere visto il mondo! Dov’è meglio? Là, dove noi non siamo.” Frase che ricorda un vecchio detto: “Il pessimista è un ottimista con esperienza”…Per non parlare di quelli che ‘si muovono’ restando fermi su una comoda poltrona, ovvero i sognatori ad occhi aperti, che viaggiano navigando nel vasto oceano del possibile. In un certo senso, la possibilità è esteticamente superiore alla realtà; ma quello che importa in questi casi è, per così dire, l”energia cinetica’ della rêverie:

Tutto fu ambìto
e tutto fu tentato.
Quel che non fu fatto
io lo sognai;
e tanto era l’ardore
che il sogno eguagliò l’atto. (D’Annunzio)

Ci sono anche persone che si illudono di viaggiare stando sedute davanti alla TV: per esempio, se vedono un documentario su Petra, credono che ciò equivalga all’esserci stati…Ma chi non percorre con le proprie gambe il SIQ, non potrà mai comprendere l’intimo, magico stupore, di un mondo che di colpo si svela. Inoltre, non si possono non ricordare gli internauti, i frequentatori della realtà virtuale e quant’altro, ma il viaggio nell’universo tecnologico e multimediale (e dunque nell’infosfera, manipolata dalle multinazionali per colonizzare anche l’inconscio, e diventare sempre più ricche…) sarebbe troppo lungo e dispersivo. Con un immenso volo pindarico, si possono annoverare fra i grandi ‘viaggiatori’, anche se ciò può sembrare assai strano, molte delle nostre…. azioni(!), specialmente quando diventano interazioni col mondo circostante. Qualunque persona, interagendo con qualunque altra persona, infatti, modifica anche la tempistica, e in certi casi pure la modalità, delle azioni e interazioni successive di entrambi: ne consegue una sorta di reazione a catena fenomenica, teoricamente infinita. È un fenomeno analogo al cosiddetto ‘effetto farfalla’, un concetto introdotto dal matematico e meteorologo Edward Lorenz in un suo articolo del 1972: “Predictability: does the flap of a butterfly’s wings in Brazil set off a tornado in Texas?” In sostanza l’autore si chiede se il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano nell’altra parte del mondo (The Butterfly Effect). Anche se non è da prendere alla lettera, dà comunque un’idea dell’influenza che può avere un evento casuale e insignificante nei sistemi complessi. Qualcosa del genere dice in un suo racconto (Universi Alternativi) Robert Silverberg:”Vai, affronta i tuoi viaggi. Il tempo si biforca, e continua a fare nuove diramazioni. Ad ogni istante di decisione, nuovi universi si schiudono. Gira a sinistra, volta a destra, suona il clacson, passa col rosso, schiaccia l’acceleratore, frena, ogni azione abbraccia intere galassie di possibilità. Ci muoviamo attraverso una zuppa di infiniti. Se trattenere uno sternuto genera un continuo alternativo, quali, allora, sono le conseguenze degli atti veramente importanti, le uccisioni e le fecondazioni, le conversioni, le rinunce?”
Ma il racconto più significativo in tal senso è Rombo di Tuono, di Ray Bradbury. Eccone in succinto la trama: nel 2055 vengono organizzati dei safari nel tempo, in questo caso nell’era dei dinosauri. I ‘turisti’ temporali devono camminare su una passerella sospesa per non modificare nulla dell’era passata. Ma uno di essi, per errore, cade e fa due passi nella vegetazione del Giurassico, solo per un breve momento. Ma quando la spedizione ritorna nel proprio tempo, praticamente in giornata, trova mutamenti radicali: e non è cambiato solo il nome della ditta che organizza i viaggi temporali, ma c’è un altro Presidente, una lingua diversa, uno stato totalitario. L’enigma si svela quando il citato esploratore scopre di avere calpestato una farfalla, la cui morte ha causato eventi a catena ad effetto domino che hanno cambiato per sempre il futuro! Si tratta chiaramente di un’esagerazione ma, come dice Picasso, “L’arte è un inganno che ci fa scoprire la verità”. Il caso ha un ruolo cruciale anche in molte trame cinematografiche. A puro titolo di esempio si possono citare i film: ‘Cronaca di una morte annunciata’ di Francesco Rosi, ‘Match Point’ di Woody Allen e, soprattutto, ‘Destino cieco’ (Przypadek), conosciuto anche con il titolo alternativo ‘Il caso’, scritto e diretto da Krzysztof Kieślowski, suddiviso in tre episodi, a partire da una scena comune, dopodiché il protagonista segue tre percorsi esistenziali totalmente diversi, a seconda di come cade una moneta dalle mani di un vecchio ubriaco…
Si immagini ora di fare questo esperimento mentale: scattare una foto del centro di New York o di qualunque altra città dove non siamo mai stati, in un preciso momento. E poi, considerare la possibilità di ripetere nel medesimo attimo la stessa foto, in tutto tecnicamente identica, nel caso in cui uno e soltanto uno di noi, o di qualunque altro, non fosse mai nato. Ebbene, le due foto sarebbero diverse, magari per poco, ma sarebbero diverse! Ciò ovviamente non si può dimostrare, se non con l’evidenza cartesiana, quindi è scientificamente implausibile. Ma al fine di evitare discorsi troppo metafisici si può asserire, per usare un’espressione di Gödel, che l’esito dell’esperimento mentale è un enunciato vero ma non decidibile.
Tuttavia, se l’ipotesi inferenziale è corretta, ‘Sua Maesta’ il Caso’, per dirla con Federico II di Prussia, diventa l’artefice della Storia. Molti filosofi concordano su questo punto. Scrive György Lukács in Cultura e Potere: “Marx scrisse in una lettera a Kugelmann che dipende sempre dal caso il carattere delle persone che si trovano da principio alla testa della classe operaia. Sono convinto che non si possa eliminare questa casualità. La storia non è un processo (…) determinato automaticamente dal meccanismo delle forze sociali.” Per fare un altro esempio, secondo Charles Sanders Peirce, teorizzatore del pragmatismo, nel mondo non esiste alcuna necessità e tutto è frutto degli imprevedibili giochi del caso, una condizione che il filosofo battezza con il termine “tichismo”. Dunque è il caso il vero regista della Storia e delle nostre vite. E su questo punto concorda anche la saggezza latina: Post hoc ergo propter hoc (Dopo ciò, dunque per causa di ciò) …In ultima analisi, questo dà un significato ulteriore al nostro ‘viaggio’ nel mondo, nonché a quello di molti altri organismi di tutte le gerarchie sistematiche, virus compresi. Per fare un altro volo pindarico, andando dal macro al microcosmo, si può infine accennare ai più grandi ‘viaggiatori’ esistenti, che fra l’altro sono in noi (per non dire che noi SIAMO in essi), incalcolabilmente numerosi: ovvero gli atomi che costituiscono le nostre cellule (in un essere umano di corporatura media, ci sono 7 miliardi di miliardi di miliardi di atomi, ossia 7 seguito da 27 zeri….). Scrive in una poesia il già citato Khayyam: “Questi abitator dei sepolcri son terra e polvere ora, / ogni atomo a ogni atomo ha detto per sempre addio…”; in effetti, durante e dopo la vita, infiniti atomi ci lasciano, per andare ‘in giro’ per il mondo, attraverso forme organiche e inorganiche di ogni genere. In sostanza, vanno a costituire molecole in altri mondi formali (microrganismi, piante, animali, nuvole, montagne…), come hanno sempre fatto, e così via all’infinito, e nell’infinito, sino alla fine del tempo. Oltre a questo, è assodato che essi viaggiano anche fra stelle e galassie: qualche atomo di una vostra unghia, per fare un esempio rubato a Scientific American, potrebbe avere attraversato diverse galassie, nei 13,8 miliardi di anni dell’universo, prima di raggiungervi. Oltre a ciò, è particolarmente suggestivo il fatto che gli elementi più importanti del nostro corpo, come carbonio, ossigeno, fosforo, ecc., si sono formati per fusione nucleare in una stella, la cui morte esplosiva li ha poi disseminati nello spazio, a formare la Terra, da cui è nata la vita poco meno di 4 miliardi di anni fa! Il compianto Carl Sagan è stato il primo divulgatore in tal senso; una frase ricorrente nei suoi documentari era ‘siamo figli delle stelle!’. Per inciso, suo figlio Dorion Sagan, in un libro scritto con la madre, la scienziata Lynn Margulis, afferma che il mito del viaggio affonda le sue radici nell’inconscio biologico: “La curiosità, la sete di sapere, l’entusiasmo di entrare nello spazio e di diffondere noi stessi e le nostre sonde su altri pianeti e al di là di essi, costituiscono in parte la lama tagliente di quelle strategie che la vita mette in atto per espandersi e che ebbero inizio nel microcosmo all’incirca tre miliardi e mezzo di anni or sono. Noi siamo il riflesso di un’antica tendenza.” A questo punto si potrebbe insinuare l’idea che pensare alle stelle è una sorta di circolo vizioso! È come se una statua di ceramica ‘potesse pensare’ alla cava d’argilla da cui proviene…
Per dirla in altri termini, sfiorando asintoticamente la fantascienza, il cosmo, attraverso l’evoluzione della materia nata nelle stelle o durante il Big-Bang, ha originato il cervello umano, e dunque la mente, che ha subito cominciato a farsi domande proprio sull’origine dell’universo, con risposte sostanzialmente diverse a seconda dei tempi e delle culture: speculazioni in qualche modo autoreferenziali, se è vero che il cervello è stato ‘creato’ dal cosmo….Dunque un uomo che riflette sull’universo è una parte (infinitesima, ma significativa) dell’universo che pensa a se stesso! Stando così le cose, si può azzardare l’idea di autocoscienza del cosmo?
Si può affermare che l’universo, nella mente umana, inviene se stesso? Domande che peccano di antropomorfismo, nonché di metafisica, ma che insinuano una possibilità. Del resto la fisica, portata ai suoi estremi, come ogni concetto, diventa paradossale, o meta-fisica: basti pensare alle teorie sull’origine del cosmo, o alla non località delle particelle elementari o addirittura alla comunicazione istantanea tra particelle cosiddette ‘entangled’ (intrecciate), anche a distanze astronomiche. Ma se è valida questa assunzione, allora i miti dell’origine, della totalità, o dell’unità del cosmo, che sono fondanti in tante religioni e culture, non esprimono più concetti trascendenti, ma immanenti, inverandosi materialmente dentro di noi. Concetti che forse hanno influito sul giudizio dell’astronauta Armstrong, quando ha detto che uno dei momenti emotivamente più intensi del suo mitico viaggio è stato vedere, nella notte lunare, i crateri di colore blu, perché illuminati dal riflesso dei mari della Terra! Ma pure in questa frase del citato Lukács (Teoria del Romanzo), si avverte un senso di unità dell’Essere: “Il mondo è sconfinato e in pari tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nello spirito partecipa dell’essenza delle stelle: come la luce dal fuoco, così il mondo è nettamente separato dall’io, epperò mai si fanno per sempre estranei l’uno all’altro”.

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