Nel pomeriggio del 14 febbraio 2024 alcune di noi socie dell’Osservatorio Interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD), assieme ad altre appartenenti a diverse associazioni e a semplici amiche invitate, abbiamo incontrato su zoom, grazie alla collaborazione di Anna Caruso e Catti Cifatte, presidente di OIVD, il cooperante e amica Giuditta Brattini, ritornata lo scorso mese di novembre dalla striscia di Gaza. L’incontro è stato prezioso sia per le informazioni che abbiamo ricevuto, sia per la condivisione emotiva ed empatica con Giuditta, che è una persona molto calma, ma diretta: una narrazione la sua che viene da dentro, viene da una esperienza di lunga data, fatta non solo di progetti, ma di partecipazione al tessuto in cui ha potuto vivere, recandosi a Gaza, da diversi anni, tre volte all’anno per almeno 40 giorni.

Giuditta ci confessa che proprio gli incontri che sta facendo in questi mesi, seppure faticosi, le hanno dato una maggiore consapevolezza: “In passato non ho mai amato molto fare iniziative, forse sbagliando; facevo il mio lavoro in campo sanitario con i bambini, inviavo i report all’Associazione e aggiornavo gli adottanti e donatori. Questi incontri invece un po’ alla volta mi hanno fatto comprendere tanto e oggi mi sento di dire che questo 7 ottobre era atteso, percepivo che c’era qualcosa nella popolazione e anche nei rapporti tra di noi che non erano più di totale condivisione”.

Giuditta fa la volontaria (e sottolinea il termine volontaria) nella associazione Gazzella Onlus che si occupa di bambini feriti e della loro salute nella striscia di Gaza. Una scelta, ci dice, che è anche una denuncia perché i bambini sono i più esposti, specie ai bombardamenti che non hanno preavviso, e loro sono in strada a giocare! Per l’Associazione Fonti di Pace, Giuditta segue il progetto di riabilitazione per bambini e adulti con disabilità. Un progetto finanziato con 8×1000 dalla Chiesa Valdese. Per lo sviluppo del progetto si avvale di un partner locale, il Palestinian Medical Relief Society.  Il progetto è rivolto ai disabili e alle persone che li seguono nella vita quotidiana e che, solitamente, sono le madri. Le donne sono l’ossatura della famiglia. I padri sono spesso senza lavoro o con lavori saltuari e la depressione colpisce tutti. “E’ la donna il perno della famiglia, che sa dare forza per gestire lo stress e le avversità, ma anche sa mantenere un risoluto atteggiamento di contrasto alle violenze e all’oppressione” ci dice Giuditta. La presenza della psicologa nel progetto è fondamentale perché a volte la comunità colpevolizza la madre per la disabilità del figlio, mentre ci sono responsabilità sanitarie e di condizioni di vita che possono causare la nascita di un bambino con un deficit.  Causa l’aggressione il progetto è stato sospeso.  Certo quello dell’associazione Fonti di Pace è un piccolo progetto rispetto ai faraonici progetti della cooperazione internazionale in cui si investono tanti soldi.  Giuditta ci tiene a precisare il suo ruolo di volontaria che è una scelta di agire quotidiano: “per me è essenziale raccogliere i bisogni, comprendere le difficoltà ed insieme trovare le soluzioni sostenibili. L’essere volontaria non mi obbliga a rispondere ad una struttura di ONG, con tanto di apparato amministrativo e “professionisti” stipendiati, che solitamente viene finanziata dai Governi e che quindi costringe le ONG a rispondere ai criteri dei ‘donatori’ e non alle esigenze reali della popolazione”.

Giuditta ci racconta che la percezione che qualcosa stesse succedendo prima del 7 ottobre era dovuta alla presa di coscienza di una “chiusura” dei suoi partners, percepita anche come una mancanza di fiducia. A Gaza la gente era in attesa di una risoluzione del conflitto e di pace, aspettava la fine dell’assedio che la teneva prigioniera, impossibilitata ad uscire da Gaza se non con permessi da parte israeliana e difficili da ottenere. Il ricordo di Giuditta va all’ esperienza delle manifestazioni non violente del 2018/2019, la Grande Marcia del Ritorno, dove la popolazione ogni venerdì andava al confine per chiedere la fine dell’assedio. Ci parla della repressione israeliana: “ci furono più di 300 morti e centinaia e centinaia di feriti che con il team del Palestinian Medical Relief Society andavo a soccorrere con le ambulanze. Anche quell’esperienza non ha portato alcun dialogo con Israele, solo repressione, e neppure la Comunità Internazionale ha prestato attenzione alla esasperazione della popolazione che chiedeva, in modo non violento, la fine della occupazione. Ecco quindi che il 7 ottobre è stata un’esplosione dopo decenni di negazione di vita, di divieti a spostarsi, di terra divorata dagli insediamenti e dalla violenza: l’economia soffocata, la gente sfollata e le case distrutte. A Gaza il 70% sono rifugiati del 1948 e del 1967 e vivono di aiuti umanitari.”

Il 7 ottobre Giuditta era già al lavoro al mattino presto quando ci furono i primi lanci di razzi e alle 11 la striscia di Gaza era già sotto bombardamento con morti e feriti. All’ospedale El Quds dove si è recata ha visto arrivare feriti con arti amputati dalle bombe, con bruciature causate dalle bombe al fosforo bianco. Israele ha tagliato immediatamente l’elettricità e le strutture sanitarie in pochi giorni sono arrivate al collasso. I feriti, per mancanza di posti letto, venivano curati sul pavimento. Da un rapporto di Save the Children dello scorso mese di gennaio risulta che a 1000 bambini sono stati amputati gli arti, anche senza anestesia, causa la mancanza di strumentazioni sanitarie necessarie alla cura.  Giuditta ci ripete che queste violazioni di Israele devono essere denunciate senza paura di essere accusati di antisemitismo: se siamo antifasciste, e noi lo siamo, siamo quindi portatrici di quei valori che si riassumono nell’antirazzismo, nell’uguaglianza e nell’integrazione. Per questo non possiamo essere Antisemiti. Adesso è necessario chiedere il cessate il fuoco e il rispetto del diritto umanitario internazionale.

Ad una domanda di Clelia sulla situazione scolastica dei bimbi di Gaza, Giuditta risponde che la scolarizzazione era molto alta e c’è sempre stata una grande attenzione per la scuola, anche se le risorse economiche per tante famiglie erano limitate. Le classi erano numerose, almeno 50 alunni per ciascun turno di lezioni.  I 206 bambini feriti o con disabilità in adozione con il progetto dell’Associazione Gazzella venivano osservati anche a livello scolare, specie i bimbi con sindrome down e autistici, che frequentavano strutture dove oltre a socializzare imparavano a disegnare, cucinare, dipingere. A Gaza le Università avevano parecchi studenti. Sono state distrutte come anche le scuole, gli asili, le strutture pubbliche sanitarie, l’anagrafe civile e anche quella scolastica. Bisogna ricominciare da zero e chissà quanto tempo ci vorrà, si chiede Giuditta. 

Quando si parla di genocidio, non si deve intendere  solo un crimine violento contro i civili nell’intento di annientarli, ma bisogna considerare in modo ampio tutte le violenze messe in campo e le  violazioni dei  diritti fondamentali dell’individuo come forzare migliaia di civili ad abbandonare la propria casa ed evacuare in luoghi non sicuri; come distruggere scuole, strutture sanitarie, centri di distribuzione dell’energia elettrica, infrastrutture  e rendere quindi impossibile per la popolazione tornare a vivere. Oltre 50.000 tonnellate di bombe sganciate su Gaza dal 7 di ottobre sono una bomba atomica a rate, che rende di fatto invivibile la striscia. C’è disumanità e troppi morti che adesso pesano su un processo di pace. Quello che sta facendo Israele è orribile, non c’è umanità. Ma la situazione non riguarda solo Gaza: in Cisgiordania i coloni con il sostegno dell’esercito israeliano ammazzano impuniti i residenti palestinesi, distruggono le loro case e i campi coltivati.

Giuditta si interroga su questi giovani israeliani che hanno l’obbligo del servizio militare dai 18 ai 21 anni e ci ricorda l’intervista a Miko Peled che denuncia come da ragazzino gli insegnavano che c’era la guerra e che doveva fare la guerra; i giovani crescono e vengono formati a fare la guerra e non a dialogare.

Ad una domanda di Marzia ed Anna su cosa noi qui possiamo fare, Giuditta risponde che ci resta solo la denuncia con la richiesta forte di una fine della occupazione e del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese: riconoscere il diritto al Ritorno sancito dalla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sempre disattesa da Israele e ignorata dalla comunità internazionale. I coloni e l’esercito, davanti alla “nullità” delle Risoluzioni, imperversano e il territorio assegnato ai palestinesi nel 1948 con la Risoluzione Onu 181, il 44% della Palestina storica, oggi è ridotto al 20%. Nella Cisgiordania 700mila coloni vivono in oltre 200 insediamenti e l’occupazione continua compresa Gerusalemme Est.

La domanda ricorrente davanti all’aggressione ai civili di Gaza è “dove andranno donne, uomini e bambini dopo che l’esercito israeliano ha distrutto oltre il 60% delle abitazioni?” Sull’argomento Giuditta ritiene che la diplomazia internazionale li vorrebbe vedere sistemati nel Sinai e tanti altri in diaspora, quella diaspora che da sempre è assimilata agli ebrei! Ma si chiede anche se è corretto che uno Stato sia solo per gli ebrei escludendo il resto dei cittadini.  La Basic law del 2018 ha definito Israele   uno Stato Nazione solo per gli ebrei escludendo gli arabo-israeliani che dal 1948 vivono in Israele. Allora viene logico chiedersi “possiamo definire Israele Stato democratico quando esclude cittadini dalla vita sociale e non riconosce pari diritti per tutti i suoi cittadini? Uno Stato democratico si basa su valori, principi e pratiche che lo qualificano: libertà, uguaglianza, solidarietà, diritti universali esigibili e convivenzadi etnie, culture e religioni diverse.

Tutto quanto sta accadendo è un danno anche per Israele.

La situazione territoriale attuale fa affermare a Giuditta che la soluzione dei due Stati è difficilmente realizzabile. 

Ribadisce che noi, a parte la denuncia, siamo impotenti. È la politica che deve intervenire. Intanto il nostro paese sta portando e dando aiuti. “Sapete cosa dicono a Gaza dei bambini feriti arrivati in Italia? Certo non possono rifiutare di mandare fuori il bambino che deve essere curato, così come non possono rifiutare di prendere gli aiuti della cooperazione internazionale, ma vorrebbero che non fossero bombardati i loro ospedali e poter curare i bambini a casa loro. A questa affermazione aggiungo che le armi a Israele arrivano anche dall’Italia.  Leonardo, azienda a partecipazione statale, le produce e le vende. Curiamo i feriti che facciamo!”

Ci sono tante manifestazioni nel mondo, continua Giuditta, ma anche il pacifismo lascia il tempo che trova.  L’opposizione interna ad Israele è poco efficace e anche repressa: i refusenik, cioè i militari uomini e donne che rifiutano di andare a combattere contro i Palestinesi, sono stati imprigionati o sono andati all’estero. C’è anche un forte movimento di obiettori di coscienza, ma non hanno avuto lo stesso peso dei refusenik. Noi continuiamo a volere parlare di pace, ma finché vendiamo armi otterremo scarsi risultati.

Ad una domanda di Chiara sulle notizie che molti uomini e donne, famiglie intere israeliane bloccano gli aiuti al valico di Rafah, Giuditta risponde: “purtroppo è vero e sono protetti dall’esercito israeliano e tollerati dal governo; non c’è più umanità. Del resto se un ministro israeliano parla dei palestinesi come animali (e non solo Israele) uno si sente giustificato a fare tutto. Avete sentito una parola di condanna a questi epiteti da parte degli stati della comunità internazionale?

Giuditta ci esprime poi il suo parere sulla Risoluzione Onu 181 del 1948: un errore perché subito dopo è iniziata la pulizia etnica, come Ilan Pappè, storico, ci descrive nel suo libro. L’anno successivo, 1949, l’Assemblea della Nazioni Unite con la Risoluzione 302 ha fondato l’Unrwa l’Agenzia per i rifugiati palestinesi e con questo è stato esplicitato che la creazione dello Stato di Israele aveva determinato dei rifugiati!

Prima del 1948 nella Palestina storica vivevano pacificamente circa due milioni di persone, arabi laici e di religione cristiana, mussulmana, ebrea.  Ora la situazione, come abbiamo discusso, risulta essere molto compromessa. Agli inizi degli anni 2000 Omar Barghouty venne in Italia e in Europa parlando della soluzione di uno Stato, ma sono passati vent’anni e ci sono stati solo massacri.

Sullo scenario attuale dell’aggressione alla striscia di Gaza, Giuditta pone l’attenzione agli interessi economici in campo: di fronte a Gaza c ‘è un giacimento di gas da esplorare e che spetta ai Palestinesi.  Ma per Israele lo stato di Palestina non esiste e quindi rivendica per sé il diritto allo sfruttamento. Questa ricchezza sarebbe la soluzione alla crisi economica per la popolazione palestinese e ne determinerebbe la sua totale autonomia dagli aiuti umanitari. Ecco anche questo elemento non va sottovalutato nella complessiva situazione che stiamo vedendo. 

Infine Giuditta ci offre alcune considerazioni sul problema della leadership politica in Palestina, sollecitata da una domanda di Clelia. In questo momento in Palestina ci sono 14 fazioni politiche; l’Autorità Nazionale Palestinese non è apprezzata perché per tanti è corrotta e collabora con Israele nel campo della sicurezza.  Una figura di rilievo, riconosciuta anche da Hamas, è Marwan Barghouty, prigioniero da oltre 20 anni nelle carceri israeliane. È una figura che potrebbe fare da collante nello scenario politico palestinese anche per il rispetto che gli viene riconosciuto sia dai movimenti islamici e non, che dalla resistenza pacifica e armata. Oggi si sta lavorando per lo scambio di ostaggi israeliani con prigionieri palestinesi, in particolare quelli in detenzione amministrativa cioè arrestati senza accusa e prove, ma è probabile che anche il nome di Marwan possa essere tra quelli per lo scambio. La questione degli ostaggi è un altro nodo che va risolto al più presto, pena la restituzione di cadaveri perché i bombardamenti israeliani sono ovunque e contro chiunque.

Giuditta ci promette un altro incontro per approfondire la questione palestinese e per approfondire le ragioni della pacifica Marcia del Ritorno.

10 marzo 2024        

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