LA PACE È L’UNICA STRADA

David Grossman

Mondadori, Milano (2024)

È un libriccino veloce, che si legge in un lampo, e che, eppure, rimane dentro a lungo, a sedimentare, quale potente necessario nutriente quella terra quasi arida – di pessimismo, di delusione, di resa – che potrebbe essere il pensiero del lettore medio. E non perché Grossman riveli formule magiche risolutive di un conflitto, quello israelo-palestinese, che si accampa fatalmente in avanti per molti anni a venire, ma per come riesca a rintracciare in sé una fondamentale testarda volontà di pace, nonostante tutte le congiunture contrarie che sa vedere e denunciare. Lui, uomo ebreo che ama il paese in cui vive, ma senza rivendicarne l’esistenza quale dovuto risarcimento, quale postumo riscatto per quell’ignominia, quella banalità del male, delle nazioni del mondo che restarono troppo a lungo cieche e sorde alla Shoah, ai suoi prodromi, ai suoi esecutori storici. Senza pretenderne nemmeno un’assegnazione divina, metastorica, e non tanto per la sua personale assenza di fede religiosa, ma per il suo forte radicamento nel tessuto storico e sociale del proprio tempo. Lui, padre pacifista di un figlio ucciso in una guerra per il suo Paese; lui, israeliano contrario da sempre alle condizioni di disparità e sopraffazione riservate ai palestinesi, primariamente per ragioni umanitarie, ma anche per la ineluttabile deriva delle ritorsioni e delle faide, non ultima quella manovrata da Hamas il 7 ottobre dell’anno scorso.
Grossman, nei vari capitoletti, entra con decisione, ma anche con grande amarezza, nei meandri della situazione israeliana, non limitandosi ad una critica dell’attuale dirigenza di destra, sulle vie della dittatura, di Netanyahu e delle forze integraliste che lo sostengono, ma osando affermare che molti cittadini critici del regime “hanno scoperto che è possibile amare il proprio Paese, non di un amore idilliaco, kitsch, condito da una semi-idolatria fascista, ma con un attaccamento consapevole, lucido, che nasce dal desiderio di trasformare Israele nella nostra casa e dalla genuina aspirazione a vivere in pace con i nostri vicini.”. Importante la disamina, poi, su cosa si debba intendere per  “uno Stato ebraico”, dove varie difficili situazioni sono toccate, dalle frontiere al ruolo delle maggioranze e minoranze, al peso della religione, ma dove le prime parole sono le medesime delle ultime, pronunciate a tutto cuore: “Uno Stato ebraico è la patria nazionale del popolo ebraico che considera la piena uguaglianza dei cittadini [ebrei e arabi, n.d.r.] la sua più grande prova di umanità, nonché il compimento della visione dei suoi profeti e dei suoi padri fondatori.”. Lo dice e lo ribadisce, anche se è consapevole che il rischio per la democrazia è già gravissimo, essendo la “realtà di Israele” ormai “violenta, rozza, inquinata”, tanto da rivelare una verità a lungo tenuta nascosta o camuffata dall’ideologia arrogante che esaltava il Paese come superiore per civiltà e forze militari a tutto il circondario, se pur nemico, però inoffensivo. La verità constatata con occhi disperati, quando l’odio fatto crescere dalle scelte sbagliate, nel massacro del 7 ottobre ha mostrato la profonda debolezza di Israele. Intuisce Grossman, anche se lo scritto si ferma prima della feroce ritorsione, che continua ancora adesso, di Israele su tutti i viventi di Gaza, il probabile avvio di un’ennesima strage di innocenti. Il dolore di Grossman può solo rivolgersi a chi, come Etty Hillesum, ha saputo, nelle condizioni più terribili della deportazione nazista, rimanere “libera”: dall’odio, dalla disperazione, dalla disumanizzazione.
Non a caso il libro si apre con una commossa e tenera dedica ai bambini di Gaza ed Ashkelon, che cresceranno “con il trauma dei missili, dei bombardamenti e delle sirene”, a cui chiede “scusa, perché non siamo stati capaci di creare per voi la realtà migliore e più sana a cui ogni bambino di questo mondo ha diritto.”. In quanto tutt’e due le parti, “Israele e Hamas, sono prigioniere del letale circolo vizioso da loro stessi creato (…) un meccanismo automatico capace solo di ripetere le stesse azioni, ancora e ancora, con forza sempre crescente. (…) è chiaro che la guerra si è esaurita, e tutti lo sanno, in Israele e a Gaza, ma non sono in grado di smettere”. Nonostante l’evidenza che “fare la guerra è più facile che fare la pace”, perché “la guerra si tratta solo di continuarla, mentre la pace costringe a processi psichici difficili ed elaborati, processi che popoli abituati quasi solo a combattere vivono come una minaccia”, eppure Grossman pare gridare che bisogna prendere atto che “questa guerra è finita” e che bisogna cominciare a pensare al difficile ‘dopo’, perché resterà che “quanto è accaduto”, e cioè il “linciaggio di persone solo perché sono ebree o arabe”, è “il livello più infimo di odio e crudeltà”: l’“umanità” stessa delle “vittime” è stata “negata” e gli “assassini si sono trasformati in quei momenti in bestie”. E Grossman indica come unica possibile “lotta”, non quella tra arabi ed ebrei, ma quella “fra quanti – dalle due parti – anelano a vivere in pace in una convivenza equa e quanti – dalle due parti – si nutrono psicologicamente e ideologicamente di odio e violenza.”. Per ritrovare “la strada quasi perduta, la strada tortuosa e ardua per vivere qui insieme, in completa uguaglianza e in pace, arabi, ebrei, esseri umani.”        

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