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Ritenuto da molti studiosi il più insigne mistico cattolico,[1] nonché un grande poeta, Giovanni della Croce nasce ad Avila (Spagna) nel 1542. A ventun anni decide di farsi religioso optando per l’ordine dei Carmelitani presso la sede castigliana maggiormente prestigiosa: Medina. Lì incontrerà in seguito Teresa di Gesù (Teresa d’Avila) che lo convince a partecipare alla riforma del Carmelo da lei avviata; ha inizio così l’intensa vita spirituale di Giovanni all’insegna della preghiera, dell’austerità e dell’apostolato. Data cruciale sarà però il 1577, allorché egli ‒ accusato di fomentare la ribellione/secessione, legata ai contrasti sorti tra i due gruppi dei carmelitani: gli Scalzi e i Calzati ‒ viene arrestato e imprigionato nel convento di Toledo, dove è costretto a rimanere in una cella angusta per circa nove lunghi mesi travagliati di prigionia dura e penosissima; carcerazione dalla quale Giovanni uscirà stremato grazie a una fuga avventurosa, per trovare poi rifugio in Andalusia. Seguiranno successivamente anni intensi in cui il Nostro si prodigherà ancora per la riforma dell’Ordine, assumendo vari incarichi: ora quale superiore di comunità, ora quale direttore spirituale. Sarà quello anche un periodo d’impegnativa e fruttuosa produzione letteraria. Una volta poi fatto ritorno nella natia Castiglia riprenderanno tuttavia le frizioni/incomprensioni con alcuni confratelli e con il suo autoritario e poco duttile Superiore generale. Allontanato da ogni responsabilità, Giovanni si ritirerà nel silenzio e nella meditazione senza mai cedere al turbamento, mantenendo un’inscalfibile serenità d’animo che non verrà meno neppure con l’aggravarsi delle condizioni di salute, via via sempre più precaria. Morirà quindi a soli 49 anni sul finire del 1591, venendo proclamato santo nel 1726 e Dottore della Chiesa nel 1926.

Quattro sono le opere maggiori del Nostro: la Salita del Monte Carmelo, La notte oscura, il Cantico spirituale e la Fiamma d’amore viva; tutte composte da una parte poetica e da una serie di commenti esplicativi intorno ai versi. Ma è forse il primo testo, a mio avviso, a risultare più significativo/stimolante degli altri, specie per quanti vogliano conoscere in che consista l’itinerario mistico proposto da Giovanni della Croce o, meglio ancora, per chi intenda ripercorrerlo. Tale scritto infatti, come nota in apertura il suo autore, specificatamente: “Tratta delle disposizioni che un’anima deve avere per giungere in breve tempo all’unione divina” ‒ offrendo ‒ “suggerimenti e dottrina utilissimi per arrivare a liberarsi di tutte le cose temporali senza lasciarsi impigliare da quelle spirituali”.[2]

La prima cosa da farsi, secondo il trattato in questione, è una purificazione dell’anima ‒ la quale implica lo svuotamento di tutte le brame mondane ‒ da compiersi mediante l’attraversamento di quella che il mistico spagnolo chiama, con felice immagine poetica, la noche oscura (notte oscura), che equivale a una “mortificazione degli appetiti”, e può esser ben chiamata tenebrosa, in quanto: “finché ne rimane avvolta, l’anima non ha la possibilità d’essere illuminata e posseduta dalla pura e semplice luce di Dio” [3].

Ma la cosa interessante è che il liberarsi da ogni tipo di desiderio si riferisce non solo agli appetiti legati alle questioni materiali ma pure a quelli spirituali. Come già aveva a suo tempo predicato Meister Eckhart, nemmeno aspirare alla perfezione e all’unità con Dio è cosa opportuna. Occorre lasciar cadere ogni proposito, ogni mira, divenendo assolutamente poveri in spirito; tutto il resto è impaccio, ostacolo, ambizione velleitaria. Così, per quanto paradossali, sono facili da intendere i versi seguenti, che tengono ben conto delle umanissime/lecitissime aspirazioni al miglioramento di sé, ma indicano una via assai poco praticata per conseguirlo senza cercarlo: quella mistica.

Per arrivare a gustare tutto
non voler gustare nulla;
per arrivare a possedere tutto
non voler possedere nulla di nulla;
per arrivare a essere tutto
non voler essere qualcosa in nulla;
per arrivare a sapete tutto
non voler sapere nulla di nulla;

(…)

Se ti soffermi su qualche cosa,
non puoi immergerti nel tutto;
perché se vuoi in tutto andare al tutto
devi del tutto negarti in tutto;
e quando pervieni a possederlo del tutto,
devi tenerlo senza nulla volere;
giacché se cerchi d’avere qualcosa in tutto,
non conservi puro in Dio il tuo tesoro.[4]

Ancora una volta, dunque, si tratta di praticare in completa umiltà una radicale e ascetica kenosis: quello svuotamento e abbassamento egoico che, secondo la tradizione cristiana, ci affratella a Cristo, il quale non solo da Figlio di Dio si fece uomo (umiliandosi), ma accettò di buon grado la spoliazione estrema di venir ucciso in croce. Oltre a uniformarsi all’insegnamento di Gesù, il mistico: “non deve assolutamente aggrapparsi a quanto dovesse ricevere spiritualmente” (Libro II, Cap 4). Compito non agevole per quanti amino le consolazioni/visioni celesti; così, ammette l’autore: “pochi sanno e vogliono entrare in questa suprema nudità e vuoto dello spirito” (Libro II, Cap. 7). In sintesi, la purificazione praticata nell’attraversamento della noche spirituale deve riferirsi a quelle che Giovanni chiama agostinianamente le tre potenze dell’anima: l’intelletto (nulla sapere), la memoria (distogliersi da ricordi, pensieri, elucubrazioni) e la volontà (non intender perseguire appagamenti di qualsiasi tipo).

Anche il secondo trattato, La notte oscura, consiste in un commento alle strofe poetiche iniziali. In primis, dunque, il Nostro utilizza ancora la poesia, avvalendosi cioè di metafore e immagini che possano alludere a un ambito ‒ quello divino ‒ che la discorsività della mera ratio non permette di raggiungere. Ne sarà ben consapevole un altro insigne mistico-poeta: Angelus Silesius (1624-1677), che scriverà il suo capolavoro ‒ intitolato Il pellegrino cherubico ‒ solo attraverso brevi/incisivi testi in versi, spesso limitandosi a dei semplici (ma quanto indicativi e folgoranti) distici. Tornando all’opera giovannea, essa è ovviamente una ripresa e un ulteriore approfondimento di quanto già delineato nel testo precedente. A questo proposito va comunque precisato che un po’ tutti i mistici, senza alcuna tema di ripetersi, tendono a ribadire più volte quanto ritengono basilare. Le loro reiterazioni sono pedagogico-mistagogiche, al solo fine di far comprendere ai lettori la necessità delle operazioni essenziali a ogni itinerario mistico: annullamento dell’ego, accettazione (sia fatta la tua volontà),[5] totale affidamento (a Dio), rinuncia ad ogni pretesa (volizione, desiderio).

Tutto questo comporta un lungo lavoro su di sé, che appunto il Nostro equipara all’attraversamento di uno spazio-tempo tenebroso/pauroso, il quale però non è affatto da temere giacché esso è spiritualmente fruttifero. Si tratta, insomma, di varcare la porta angusta di cui parla Matteo (Mt 7,14), in quanto, osserva Giovanni:

(…) la porta stretta è la notte del senso: l’anima si spoglia e si denuda del senso per entrare nella notte e incontrare la fede, a questo del tutto estranea, e per avviarsi lungo la via stretta dell’altra notte, la notte dello spirito, nella quale entrerà per camminare verso Dio vestita di pura fede, che è il mezzo per cui l’anima si unisce a Dio. Il cammino di questa notte spirituale è così angusto, scuro e terribile che la notte dei sensi non vi si può neppure paragonare, quanto a oscurità e travagli.[6]

Non va però posta troppa attenzione agli aspetti negativi/purgativi d’un tale itinerario. Anzi, al termine del suo secondo trattato, il Nostro evidenzia le tre qualità positive (da lui chiamate: “virtù”) che vengono a comparire nell’intimo di chi proceda senza tema ‒ né attese ‒ nell’esercizio ascetico. La prima consiste nella beata solitudine, che consente al mistico di non venir distolto/disturbato da alcuna cosa nel suo: “cammino verso l’unione d’amore”; la seconda permette all’anima ‒ grazie all’oscurità in cui è immersa ‒ di divenir: “libera dagli impacci di forme e figure” che potrebbero turbarla o distoglierla dalla vacuità meditativa propedeutica all’incontro con Dio (Libro II, cap. 25); infine la terza virtù, data dal non affidarsi più né al proprio intelletto né ad alcun altro soccorso esterno all’anima, in modo che ‒ conclude Giovanni ‒: “è solo l’amore che arde in questa notte (…) a guidarla e a sospingerla, facendola volare verso il suo Dio lungo il cammino della solitudine, senza che lei sappia come e in quale modo”.[7]

Nel terzo trattato (il Cantico spirituale) la poesia prende spunto dal biblico Cantico dei cantici, in versi che narrano come l’anima-sposa, la quale credeva d’essere giunta all’unione con l’Amato, si scopre all’improvviso sola e “ferita” d’amore. È l’inizio d’una ricerca sofferta di chi sembra introvabile ‒ il riferimento palese è al cammino spirituale da compiersi per giungere a Dio ‒, ma poi questi le dà un indizio della sua presenza, per quanto egli si mostri il loin-près, per dirla con la mistica medioevale Margherita Porete, ossia il lontano-vicino, cioè: colui che appare a quanti lo cerchino inavvicinabile ma al contempo mirabilmente presente. Occorre allora, da parte dell’anima, comprendere come (osserva l’autore, nel commento ai suoi versi):

(…) tu stessa sei il luogo in cui egli dimora, il ritiro e il nascondiglio in cui è nascosto. (…) converrà, perché tu lo trovi, che, dimentica di tutte le cose e allontanatati da ogni creatura, tu ti nasconda nel tuo interiore ritiro dello spirito e, chiudendo la porta dietro di te, cioè la tua volontà e tutte le tue cose, preghi tuo padre nel segreto.[8] (Suvvia anima bella! Poiché già sai che nel tuo seno dimora nascosto il tuo desiderato Amato, fa’ in modo di stare con lui ben nascosta, e nel tuo seno lo abbraccerai e lo sentirai con affezione d’amore.[9]

Qui e altrove l’accento è posto quindi sulla descrizione/indicazione della vita ‒ o, se vogliamo, della via ‒ spirituale che si configura come un vero e proprio “esercizio di amore”. Così, in un susseguirsi d’assenze e presenze divine, la sposa dei versi poetici giovannei s’avvia verso quello che sarà il suo nuovo stato di “unione perfetta con Dio, che chiamano matrimonio spirituale” (Strofa 26, Spiegaz. 4). Non posso fare a meno di lasciare ancora una volta la parola direttamente al mistico, ché ogni altra nota mi pare superflua:

E quanto Dio comunica all’anima in quest’intima unione è assolutamente indicibile: non se ne può dir nulla, così come dello stesso Dio non si può dir niente che sia pari a lui. È lo stesso Dio infatti che si comunica a lei con mirabile gloria e trasformando l’anima in lui, essendo entrambi uno.[10]

È la theosis, la comunione/unione con Dio, le nozze mistiche tra l’anima innamorata e il suo sposo spirituale. Questo traguardo segna la fine dell’itinerario mistico, allorquando si raggiunge un’interiorità che diviene intimità col divino, facendosi: Fiamma d’amore viva, per dirla col titolo dell’ultima opera di Giovanni ‒ scritta due mesi prima della sua morte ‒, che con questa espressione si riferisce appunto a Dio, il quale è visto poeticamente come una fiamma ardente, un soave cauterio o una regalada llaga (una delicata/deliziosa piaga/ferita). Infatti, scrive il Nostro:

(…) pur essendo questo fuoco di Dio così forte divoratore che divorerebbe in mille modi con maggiore facilità che il fuoco di quaggiù una spiga di lino, non divora ed estingue l’anima ove arde in tal modo, e nemmeno le reca offesa alcuna, ma che anzi a misura della forza d’amore la india e diletta, divampando e ardendo in lei soavemente[11]

In tutta franchezza non credo, qui, sia opportuno aggiungere davvero altro intorno a questo libro: riuscito connubio di prosa e poesia ‒ ancora più simbolico e metaforico dei precedenti ‒, se non ricordare quanto ammette lo stesso Giovanni: “la trasformazione dell’anima in Dio è indicibile” (Canzone III, Spiegaz. 8). O appena invitare a leggere la Fiamma, per farsi contagiare dal suo ardore.


[1] Per chi voglia approfondire la conoscenza e le opere di questo straordinario personaggio, consiglio la lettura del puntuale saggio di Guglielmo Forni Rosa, Tra Dio e il nulla. Introduzione al pensiero di Giovanni della Croce, Le Lettere, Firenze 2021.

[2]  Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, trad. di L. Bianchi, EDB, Bologna 2011, p. 19.

[3]  Ivi, Libro I, Cap. 4, p.35.

[4]  Ivi, Libro I, Cap. 13, pp. 73-74.

[5]  La volontà del Padre, di Dio, come insegna a pregare Gesù (Mt 6,10).

[6]  Giovanni della Croce, La notte dell’anima, trad. di M. Nicola, Sellerio editore, Palermo 1995, Libro I, Cap. 11, p. 74.

[7]  Ivi, Libro II, cap. 25, p. 196.

[8]  Il riferimento è a Mt 6,6.

[9]  Giovanni della Croce, Cantico spirituale, trad. di C. di Legnano, Paoline, Milano 2004, Strofa I, Spiegaz., pp. 54-55.

[10]  Ivi, Strofa 26, Spiegaz. 4, p. 203.

[11] San Giovanni della Croce, Fiamma d’amore viva, trad. di C. Greppi, SE, Milano 1999, Canzone II, Spiegaz. 3, p. 40.

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