Vista aerea del complesso in una foto d’epoca. (Comune di Modena).
Fonte: www.comune.modena.it

Queste righe per trasmettere, scavare e riflettere su un pezzo di vita, e vorrei fosse una parziale chiave di lettura di una generazione, di una condizione, di una realtà, di una società che stava vivendo un cambio epocale; provo a trasmettere le contraddizioni e le speranze che mi hanno trasformato. Ecco allora pochi cenni al contesto che ho vissuto prima e durante la permanenza alla FIAT Trattori di Modena. 

Alla FIAT Trattori di Modena 

Erano gli anni Sessanta, la DC aveva circa il 40% dei consensi, e si intensificavano le grandi migrazioni dal Sud Italia verso il Nord o e altri paesi del mondo, trasformando il paese in modo profondo. Gli addetti all’agricoltura calavano fortemente mentre gli operai dell’industria in espansione aumentavano tanto; nascevano e si espandevano le zone industriali, i distretti artigianali. Tanti giovani abbandonavano il mondo contadino perché l’operaio di fabbrica dava l’illusione di maggiore libertà e così anch’io ho seguito la trasformazione in corso abbandonando la realtà contadina.
In questo periodo abitavo a Campogalliano, dove attualmente ci sono i laghi Curiel, e aiutavo il papà nella sua attività di contadino. Per un anno ho anche fatto il garzone da casaro, tutti lavori che implicavano impegni di sette giorni su sette, perché le mucche e i maiali dovevano essere ‘governati’ tutti i giorni. Ho fatto anche il servizio militare ma ero sempre a casa in malattia perché, con un amico di papà che aveva contatti con un comandante militare nel reggimento dei paracadutisti di Pisa, avevamo trovato un giro per evadere il servizio di leva. Ero il ragazzo che si sentiva bello e corteggiato, il classico cagarotto, ero un qualunquista, e se ricordo bene, penso di avere votato per la prima volta PRI o PLI; andavo a Messa facendo anche il chierichetto per accontentare il papà, e ho pianto con la mamma per avere la Fiat 124 sport.
Mio padre era un cattolico militante, era quello che nelle processioni veniva scelto per portare la Madonna in spalla, votava Democrazia Cristiana, ammirava Indro Montanelli, era un grande uomo di famiglia nel lavoro e nei rapporti sociali, specialmente con i confinanti. Era sempre pronto ad aiutare gli altri; tante volte è intervenuto a casa di vicini – fratello e sorella – come paciere, perché questi due confinanti, con qualche disturbo mentale, di tanto in tanto bisticciavano e si davano botte ‘da orbi’, con urla che venivano sentite a grande distanza. Ricordo che il mio papà si era reso disponibile ad accompagnarli a Roma dal Papa.
Erano i tempi in cui si iniziava a indossare l’eschimo, le camicie a fiori, le minigonne, i pantaloni a ‘zampa di elefante’, si cominciavano a respirare le trasformazioni che imperversavano in tutto il mondo: si stava formando la generazione dei sessantottini, si sentiva un clima nuovo da vivere. Con la leggerezza dei miei 20 anni.
Siamo negli anni 1968-69: io, assunto in Fiat Trattori a Modena, senza nessuna raccomandazione. Lo faccio notare perché a quei tempi, per essere assunti in Fiat, ci voleva la spinta della Chiesa, o di un militare graduato, o di qualche persona importante. Ero stato assunto appena dopo la mia domanda e il primo giorno di presenza ho fatto le visite mediche nell’infermeria interna della Fiat; lì ho conosciuto un lavoratore, in attesa di essere visitato, che mi disse che dovevo prepararmi alla lotta sindacale, perché in quel periodo erano in corso scioperi ed io dovevo aderire, appena terminato il periodo di prova. No so con quale criterio fui inserito nel reparto montaggio, alla catena di montaggio; ero finito nella squadra di una buona persona che doveva però sottostare agli ordini del caporeparto, un uomo severo che girava per il reparto anche in bicicletta, per dimostrare il suo controllo sui capisquadra e gli operai. Era una persona proveniente dalla cultura aziendale di quel tempo – “ubbidire e lavorare” – una persona che doveva rendere conto al capo officina, il quale si era fatto la carriera perché molto devoto ai ‘bisogni’ della Chiesa, si vociferava in giro, il classico bigotto: sì, pare fosse come quell’uomo che, per dirla con P.A. Bertoli, “si era fatto la carriera con certe prestazioni fuori orario”. Tutte le domeniche mattina, e al bisogno, trasportava con la sua auto – una FIAT – in città smacchinate di suore.
Erano i tempi in cui la busta paga, con dentro il contante, veniva data due volte al mese: a fine mese un acconto e il 15 del mese successivo il saldo. In quel periodo il contratto era di 48 ore settimanali ed io dovevo fare i turni: una settimana iniziavo il lunedì alle sei del mattino e la settimana successiva, col turno del pomeriggio, finivo il turno alle ventitré del sabato. In realtà ogni turno durava 8 ore e 30 minuti, in quanto la mezz’ora di pausa pasto non era retribuita e doveva essere recuperata. La pausa mensa era una corsa contro il tempo, perché in mezz’ora si doveva marcare l’uscita dal reparto, andare negli spogliatoi a lavarsi le mani, prendere le posate, andare al piano superiore in mensa, mettersi in fila e consumare il pasto. Finito di mangiare, si ritornava negli spogliatoi a lavare le posate, a rimetterle nell’armadietto e di corsa si ritornava in reparto a marcare la ripresa del lavoro. Ricordo che l’ambiente era rumoroso, i pavimenti molto scuri perché impregnati di olio e sporcizia; l’odore era un insieme di tante puzze dovute ai materiali, alle vernici, ai forni per la verniciatura e così via. Non esisteva la temperatura controllata: d’inverno c’era abbastanza freddo e d’estate molto caldo. Il lavoro era sempre lo stesso per otto ore e doveva essere fatto seguendo la velocità della linea in uno scorrimento di 3-4 metri. Il mio lavoro era stato definito da un rilevatore (il tempista) che aveva misurato il tempo per ogni operazione lavorativa: ogni operaio doveva rispettare quei tempi; Quando arrivava il tempista per misurare le nuove procedure o rivedere i tempi esistenti, perché l’azienda provava a ridurre i tempi per aumentare la produttività, c’era sempre tensione, perché si individuava in quella figura professionale un “nemico di classe al servizio del padrone”. A volte succedeva che il tempista rilevava i tempi di nascosto e quando veniva scoperto nascevano contestazioni in tutto il reparto. Le linee di montaggio avevano in testa due semafori, uno rosso e l’altro verde, che stavano ad indicare lo scorrimento della linea. Un giorno, un mio amico aveva individuato la possibilità di fermare la linea facendo restare verde il semaforo. In questo modo il caporeparto non sapeva che la linea era ferma, ma il ruffiano di turno informò il capo della anomalia e fece ripartire la linea togliendo il fermo. Ovviamente partì la caccia al responsabile della manomissione che aveva generato il calo di produzione, ma il mio amico godeva della protezione e della copertura dei compagni di reparto e non è mai stato scoperto. Non esisteva la pausa per i bisogni personali e tantomeno per il caffè: si doveva affrettare la procedura del lavoro per trovare il tempo di andare a fare i bisogni. Solo dopo lotte sindacali, si ottenne il jolly, quella figura da prenotare per richiedere i quindici minuti per il gabinetto. A quei tempi non era permesso di mangiare il panino in reparto, lo si faceva in modo clandestino nel piccolo spazio davanti alle porte dei gabinetti. I gabinetti erano tutti alla turca e venivano puliti, non sempre, adogni cambio turno. Succedeva spesso che alcuni operai non pulivano l’escremento depositato vicino ai piedi e di conseguenza si produceva accumulo e nausea nel vedere ‘tanta roba’ che non scendeva nel buco. Tutto il reparto gabinetti era una puzza insopportabile. Le porte dei gabinetti avevano una fessura alta, dal pavimento, circa 15-20 cm., in modo da verificare se la latrina fosse occupata, e sopra erano tutte aperte. In una situazione del genere si mangiava velocemente il panino, portato da casa, nella puzza, nei rumori delle scariche, e con la paura di essere beccati dal controllo di qualche capo. Per chi non faceva i turni di lavoro, si consumava il pasto di mezzogiorno nella mensa interna allo stabilimento e, appena finito di mangiare, si andava fuori dai cancelli degli operai per formare capannelli di discussione con operai di altri reparti coinvolgendo i turnisti che entravano al lavoro.
Davanti ai cancelli c’erano dei gruppi di ragazzi delle contestazioni studentesche; si faceva volantinaggio per il sindacato tradizionale, ma anche per movimenti politici nascenti come Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia operaia, Marxisti-Leninisti, Maoisti, ecc., insomma movimenti spontanei non provenienti da scissioni di partiti, ma formati da studenti ed operai che si organizzavano spontaneamente al di fuori degli schemi istituzionali, con metodi di confronto puntati spesso ad  uno stravolgimento sociale. C’era grande discussione, studio, tutti erano portatori di ‘verità’: c’era sempre quello più a sinistra, c’era la smania politica di andare oltre, si alimentava il germe della ribellione, di una mobilitazione continua, insomma libertà dagli schemi e protagonismo era quello che caratterizzava questi movimenti. In questo periodo, di molta spontaneità, nascevano forme di fusione di categorie, di rapporti e di adesioni contraddittori, come gli ‘operai intellettuali’ o l’amore-odio verso il PCI.  Molti leggevano e studiavano le opere di Lenin, il Capitale di Marx, Gramsci, scoprendo il classismo della società. Si pensava veramente che, trattando questi temi, si poteva trovare la strada per cambiare il mondo.  C’era la convinzione che era il momento di provarci, così ogni luogo produceva dibattito ed anche alcune parrocchie divennero luoghi dove i sindacalisti, cattolici e comunisti, si ritrovavano a discutere assieme. Questi fermenti portavano le frange di ideologia marxista a contestare la linea considerata moderata del PCI e del sindacato tradizionale, con scontri e conflitti nei reparti di lavoro e durante le assemblee sindacali. Alcuni operai, per la verità pochi, si sono distinti nella critica a tutto il sistema, specialmente alla sinistra tradizionale ed ai movimenti di rappresentanza operaia; erano quelli che si collocavano sempre più a sinistra di chiunque, che proclamavano anche scioperi individuali, che, negli interventi in assemblee e in fabbrica, si ponevano sempre come insegnanti della classe operaia.
Il clima era di grande dibattito in tutti i luoghi, davanti ai cancelli, nei reparti e nella sala mensa, dove si facevano le assemblee sindacali. Il clima era veramente caldo e quando veniva proclamato lo sciopero l’adesione fra gli operai era molto alta, mentre fra gli impiegati e i capi era bassissima. Gli scioperi erano di varie modalità: sciopero dello straordinario, a scacchiera, a singhiozzo, selvaggio, per reparto o di tutto lo stabilimento per tutti i turni. Quando lo sciopero era nelle ore centrali dell’orario di lavoro, si facevano i cortei interni con incursioni negli uffici fra gli impiegati crumiri con fischietti, campanelle, urla, offese verso chi non scioperava. Qualche volta poteva succedere che un impiegato continuasse nel suo lavoro e qualcuno del corteo gli sputasse sulla scrivania. Una volta durante un corteo interno, davanti alla porta del direttore, che si era chiuso dentro, un manifestante si calò le braghe e defecò davanti alla porta. Erano i tempi in cui si rifiutava l’organizzazione capitalistica del lavoro, si chiedeva un salario più alto e si chiedeva l’abolizione dello sfruttamento dentro e fuori la fabbrica; c’era una certa cattiveria nei confronti di chi mostrava indifferenza ai temi sociali, vigeva la conflittualità permanente. Si era consapevoli di giocare una partita senza pareggio, si giocava per vincere.
Per questi motivi venivano indetti anche scioperi di alcune ore all’inizio dei turni e in questi casi si facevano i picchetti davanti ai cancelli per impedire che qualche lavoratore entrasse al lavoro. Erano presidi persuasivi, dove si cercava in tutti i modi di convincere i lavoratori che volevano entrare a non farlo, per il bene di tutti. Coloro che volevano entrare difficilmente lo facevano forzando il picchetto, ma cercavano di scavalcare la recinzione lontano dagli accessi presidiati. Il picchetto davanti al cancello d’ingresso degli impiegati era più complicato perché questi lavoratori, gli impiegati e i capi si trovavano nel parcheggio per fare gruppo e sfondare la resistenza degli scioperanti davanti all’ingresso. Se si individuava l’auto di un crumiro, gli venivano sgonfiate le gomme e si lasciava sotto il tergicristallo un foglietto di ammonimento in modo da convincerlo a non ripetere quanto fatto.
Un giorno, a fine turno, negli spogliatoi dove c’erano migliaia di armadietti, trovai all’interno del mio armadietto volantini e minacce nazifasciste che probabilmente volevano avvertirmi di correggere il mio comportamento; Ho sempre pensato fosse opera di un operaio dichiaratamente fascista e provocatore, che non esitava ad entrare in fabbrica durante gli scioperi sfidando con la forza il picchetto.
Il sindacato – la FLM – proclamava scioperi e quando ne veniva indetto uno nazionale si andava a Roma in pullman o in treno. Erano viaggi stancanti, ma il solo fatto di avere staccato dalla fabbrica, dai tempi di lavoro, dalla catena, preparare a casa i panini, costruire cartelli, portare bandiere, discutere, faceva diventare il viaggio sopportabile.                    

Alla scuola serale

Quel periodo mi ha formato, mi ha fatto crescere, lì ho fatto la scelta di campo. Mi ha anche spinto ad iscrivermi alla scuola serale, perché volevo imparare a conoscere il mondo che mi circondava. Mi sono iscritto al Fermi, scuola di élite, con corsi del diurno a numero chiuso, mentre al serale si poteva accedere senza selezione, utilizzando anche le 150 ore, altra grande conquista di quel periodo. Questa frequentazione mi ha dato l’occasione di conoscere altre realtà oltre la Fiat, di partecipare ad assemblee con gli altri lavoratori studenti, gli insegnanti e il preside che intervenivano quasi sempre, aumentando lo spessore del dibattito. Durante la pausa, verso le 20, si andava al bar adiacente la scuola, a mangiare un panino in fretta, poi si ritornava a discutere di politica. Una sera, parlando con un compagno di classe, che poi diventò funzionario della CISL, mi voleva convincere ad andare in centro a Modena a menare i fascisti dell’MSI che stavano facendo attacchinaggio. Non andai, ma lui e pochi altri andarono a fare questa ‘spedizione punitiva’.
Ricordo con tanto piacere che a scuola ho conosciuto operai, impiegati e studenti di altre aziende, vari professori, come Annamaria Fabbri, Adelmo Benassi, e il preside Luciano Ronchetti, che mi hanno dato tanto. Nell’aula magna si facevano assemblee con grande partecipazione democratica, di approfondimento su temi come il rapporto scuola-lavoro, il Vietnam, Che Guevara e altri argomenti di carattere sociale e politico, assemblee sempre animate dalla voglia di cambiare. In classe si praticava lo studio di gruppo, esperienza complessa ma formativa nel suo aspetto relazionale e per la pratica dell’aiuto reciproco. Si cresceva in gruppo, si aspettava l’ultimo, si imparava la pratica della solidarietà.  La professoressa Fabbri in occasione degli esami di stato, mi consigliò di preparare una tesina su A. Gramsci e non dimenticherò mai che, fuori dal suo orario di lavoro, mi aiutò, a titolo gratuito, nella stesura della tesina che portai all’esame di maturità. Non volle nemmeno un piccolo regalo come ricompensa, perché sosteneva che “fra compagni non esiste il mercato del vivere insieme”: grande donna, sotto tutti i punti di vista. Viveva con un compagno greco, che si ammalò molto giovane; lei dovette assisterlo per i pochi anni che visse. Rimasta sola, anche lei, a soli 64 anni, morì: ai suoi funerali, nella sala dell’addio nel cimitero di S. Cataldo, nel salutarla per l’ultima volta, ho pianto.
Ma torniamo alla Fiat. Con l’iscrizione alla scuola serale, non potevo più fare i turni e mi spostarono al reparto B, il reparto prevalentemente delle macchine utensili e le prime a controllo numerico. Il mio caposquadra era una persona perbene, che in qualche occasione mi ha coperto quando facevo il rivoluzionario di reparto, quando pensavo che le mie certezze non dovevo mediarle con nessuno, quando col mio istinto credevo di essere un combattente. Lui sì, il caposquadra, aveva capito che un soggetto come me andava guidato e governato e non castigato. Grande lezione di vita che mi ha formato e fatto crescere, mi ha avviato al lungo percorso della trasformazione da ‘piromane’ a… ‘pompiere’. Non ero più alla catena di montaggio, ma avevo una precisa quantità di pezzi da fare durante le 8 ore. Nelle squadre dei reparti ho conosciuto sindacalisti e compagni della Fiom. Uno, credo fosse della FIM-CISL, poi diventò presidente della Provincia di Modena. Erano i primi anni Settanta e le condizioni di lavoro cominciavano a migliorare, perché il clima politico e sindacale nel paese era effervescente, costruttivo. Si cominciava a chiedere la parità normativa tra operai e impiegati, relativamente a malattia e infortuni, le ore di assemblee sindacali retribuite, la riduzione dell’orario di lavoro settimanale e altro: insomma, si seminava per un futuro migliore. In quel periodo si diffondeva il teatro alternativo – Dario Fo, con serate di ‘soccorso rosso’, per sostenere le lotte sociali, era l’avanguardia –, dove la classe operaia ‘andava sul palco’; nascevano cantautori che raccontavano i movimenti, i centri sociali, per esaltare le lotte sociali di operai, studenti, braccianti, impiegati in un contesto di creazione artistica. Nelle assemblee e nel sociale l’operaio per la prima volta ebbe il coraggio di prendere la parola in pubblico. In quel periodo tante battaglie interne alla FIAT produssero significativi miglioramenti relativamente ai rumori delle macchine, ai tempi di lavoro, alla mensa, agli spogliatoi: insomma non si pensava solo al salario, ma alla salute degli operai, alla dignità della persona; si rifiutava la monetizzazione della salute, si cercava sempre lo sviluppo di tutti dentro e fuori dalla fabbrica. Si avvertiva il crescere dell’emancipazione operaia e i rapporti di forza si modificavano in nostro favore. L’approvazione dell’art.18 segnò un passaggio storico rilevante. Ricordo inoltre che l’accordo aziendale del 5 agosto 1971, dopo una lunga vertenza, con l’introduzione dei delegati sindacali di reparto, il peso dei capi venne in parte limitato.

Esiti

Nel 1975, insieme a due miei amici, partecipai ad un concorso per l’assunzione di operai all’Enel. La prova, senza preparazione, la facemmo a Firenze, dove mangiammo una bella fiorentina e successivamente rientrammo alla nostra vita con una certa indifferenza circa la prova fatta.
Dopo alcuni mesi a me e a un altro arrivò una lettera di convocazione per un colloquio a Bologna per essere assunto all’Enel. Ricordo che senza tanta apprensione andammo all’incontro e ci dissero che a giorni partiva la lettera di assunzione e che saremmo stati assunti in provincia di Modena. Infatti dopo poche settimane arrivò la lettera e col mio amico pensammo di licenziarci dalla FIAT per andare all’Enel. L’altro amico, non convocato, fece un altro concorso alla ATCM e dopo pochi mesi venne assunto lasciando anche lui la Fiat.
All’Enel fui assegnato al magazzino materiali di Modena, proprio di fronte alla Fiat. Ricordo che l’ultimo giorno di lavoro in Fiat, nel salutare i colleghi di lavoro, dissi che andavo a lavorare di fronte, all’Enel, e loro mi presero in giro: “Vai dove non si fa un kazzo, eh!”. Arrivato in magazzino, i nuovi colleghi di lavoro mi chiesero dove lavoravo prima e si misero a ridere: “Ma come? Eri dove non si fa un kazzo e sei venuto dove si lavora!, ma…”.
Che dire ancora di questo pezzo di vita in FIAT? Per cantarla con Vecchioni: “Formidabili, quegli anni”: comunque, mi sono rimasti addosso, mi hanno insegnato a vivere le sconfitte ed i successi, mi hanno insegnato che nella vita o si vince o si impara. Mi hanno fatto capire il significato del bello, del buono, del positivo, del desiderabile e del costruttivo, il peso delle battaglie per il bene comune, il valore per cui “se non servi agli altri, non servi a nulla”. Sì, porto le impronte di quel tempo. Penso di avere imparato che non serve pensare solo a se stessi e all’oggi, ma occorre pensare anche agli altri nel futuro.  Oggi devo ponderare seriamente l’esperienza che mi ha formato, quella realtà che condividevo con i miei compagni di lavoro, che mi incitava a condividere la speranza dell’emancipazione operaia, per il benessere altrui, per la quale mi sentivo bene quando aiutavo il compagno di lavoro a stare meglio, perché le sofferenze degli altri non le sopportavo e non le sopporto tutt’ora. Ora con la recessione socio-culturale, con il disarmo del cervello, il lavoratore, quasi sempre, deve competere col suo compagno di lavoro per avere la supremazia, ricorrendo purtroppo, con tutti i mezzi possibili, come la prepotenza, la falsità, le minacce, ecc., alla sconfitta dell’altro per avere una supremazia fittizia. Cioè, mi devo sentire bene, quando sconfiggo il mio compagno di lavoro, la mia felicità è proporzionale al male che faccio al mio competitore e, inconsapevolmente, alimento un modello sociale che si ritorce contro di me. Per dirla con T. Terzani “alimentiamo un modello socio/economico fatto per costringere tante persone a lavorare a ritmi spaventosi per produrre delle cose, perlopiù inutili, che altri lavorano a ritmi spaventosi per poter comprare”.
Quante riflessioni devo ancora fare sul mio pezzo di vita in FIAT, quanti valori devo ancora mediare. Sono uno sconfitto? Un vinto? Un battuto? Il mio sogno della democrazia diretta, dell’egualitarismo dei diritti nella diversità naturale degli esseri, dell’uomo migliore, e della solidarietà restano una utopia? Ma…
Quando provo a girarmi indietro per leggere il mio percorso e quello di altri amici-compagni di lotta provo delusione nel vedere che alcuni hanno adottato la cultura che avevamo combattuto e per non avere capito che la mia sincera spontaneità è stata utilizzata dal potere per frenare il desiderio di cambiare.
Abbiamo bisogno di essere apprendisti, sempre, di cercare di capire il passato per essere interpreti del presente, di studiare le condizioni che stiamo vivendo, senza adattarci a situazioni che abbiamo combattuto. La storia non si ferma e non finisce mai, e non deve finire il desiderio di imparare, a qualsiasi età.

  1. Avatar Antonio Adamo
    Antonio Adamo

    Complimenti una lettura davvero profonda e condivisibile.

    1. Avatar Renzo
      Renzo

      Grazie, è solo il racconto vero di in pezzo di vita.

  2. Avatar Antonio Zaccarini
    Antonio Zaccarini

    Bella esperienza di vita, descritta molto bene. Bravo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *