Immagine presa da Wikipedia

Le dinamiche politico/economiche innescatesi a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in Eritrea e la sindrome da accerchiamento che l’evoluzione nei rapporti di forza tra blocchi aveva determinato in tale contesto nei governi succedutisi alla guida del Paese, hanno prodotto un duplice effetto negativo sull’intero territorio: sul piano economico coll’imporre un’economia di guerra permanente a discapito di ogni possibile sviluppo; sul fronte demografico e sociale, invece, dando inizio ad un processo di forte emigrazione, soprattutto da parte della popolazione più giovane o giovanissima, magari altamente scolarizzata, nella legittima aspirazione a sottrarsi al servizio di leva obbligatorio e permanente che veniva a precludere di fatto qualsiasi futura prospettiva occupazionale.
Se oggi è un dato oggettivo che dopo oltre 30 anni di conflitti il paese abbia ottenuto la propria indipendenza dall’Etiopia, a costo peraltro di enormi sacrifici, il prezzo pagato da due intere generazioni è stato di non aver conosciuto altro che la guerra, mentre la quasi totalità delle risorse veniva assorbita in tale vortice improduttivo. In simili condizioni l’isolamento politico e l’embargo economico imposto dalla comunità internazionale hanno avuto un effetto nefasto e devastante, soprattutto sulla popolazione civile, e contemporaneamente hanno favorito quel clima di austerità imposto dall’attuale governance tanto su beni di prima necessità quali acqua potabile, energia elettrica, cibo, medicinali e carburanti, quanto sul terreno delle promesse fatte al paese di poter disporre di una propria Costituzione, di libere elezioni o della libertà di stampa.
Al presente sono tornate a crescere enormemente le tensioni con i paesi confinanti a seguito della guerra del Tigrai e al recente colpo di stato in Sudan; a questo si deve aggiungere una crisi climatica con forti siccità e crescenti carestie che aggravano ancora di più la dipendenza economica nei confronti dei paesi più ricchi della Penisola Arabica o di grandi investitori come la Cina, che aspira alla completa penetrazione nel mercato africano, senza trascurare le mire geopolitiche sul Corno d’Africa da parte di attori di primo piano quali l’America, la Russia, o la stessa Europa.
Ho raccolto di slancio l’invito a fornire sul blog Cartavetro la presente testimonianza sull’Eritrea, terra che era già di mia madre e sulla quale io stesso avevo trascorso infanzia e adolescenza, con qualche toccata e fuga negli anni successivi. Ed è appunto a lei, a mia madre Lettezghi (che in Tigrino equivale a “Eletta da Dio”) nativa del villaggio di Adi Chefelet, che voglio dedicare questo intervento, a lei come a tutte le donne eritree, vere e proprie colonne portanti del Paese nell’arco dell’intera sua tormentata storia.
Al mio lettore, invece, rivolgerei l’esortazione a deporre ogni ulteriore attesa di natura storica, politica o genericamente culturale, per disporsi piuttosto a compiere un altro viaggio nel quale aspirerei a coinvolgerlo mantenendo ben aperti gli occhi e con tutti i sensi accesi così da affidarsi unicamente a questi ultimi, giacché l’Eritrea si può arrivare a capirla soltanto attraversandola e assaporandola nei suoi gusti, nei suoi colori, nelle molteplici esperienze sensoriali, tattili ed emotive che riserva, come pure nel “non detto”, un’arte tutta eritrea che ha il singolare potere di comunicare molte più cose rispetto ai profluvi di parole dei media, i quali, solitamente, piuttosto che informare davvero, confondono o alterano la visione.
Potrei proporre a questo punto un aneddoto che mi riguarda personalmente. Come anticipavo poco più su, io sono di madre eritrea e di padre italiano: mio nonno materno era il prete ortodosso del villaggio di mia madre e quando sono nato io, al di fuori del sacramento del matrimonio religioso, come pure delle convenienze civili (era una ragazza-madre, insomma, la mamma…) – cosa del tutto disdicevole soprattutto per un uomo di Chiesa (con l’aggravante che mio padre fosse pure italiano!), alla domanda dei fedeli su che cosa pensasse rispetto a quanto era accaduto alla figlia, la sua risposta fu laconica: “ogni bambino che viene a questo mondo è un dono del Signore!”. Erano gli anni 60 ed era ancora ben vivo il ricordo della guerra per la conquista di un “posto al sole” nel Corno d’Africa!
Oggi posso dire di aver vissuto serenamente la mia infanzia e la prima adolescenza: dal bambino privilegiato che ero, in quanto figlio di un italiano, mi era stata garantita fin dalla nascita la doppia cittadinanza, mentre non possono dire altrettanto molti miei coetanei nati da relazioni fra coppie miste in cui, spesso, i padri non hanno riconosciuto i propri figli; nemmeno oggi, nonostante l’evidenza, questi ultimi hanno potuto vedere riconosciuti i propri diritti, per cui di fatto si trovano ripudiati tanto dall’Italia quanto dall’Eritrea e portano di conseguenza lo stigma di figli non desiderati, costretti ad adottare il cognome della madre. Quasi tutta la mia generazione ha vissuto una simile crisi identitaria, anche una volta rientrati come profughi nel 1974 in Italia: persino mio padre, nonostante fosse italiano, aveva incontrato enormi difficoltà di reinserimento nella madrepatria.
La complessità della situazione potrà emergere, forse, da un’ulteriore vicenda legata al mio vissuto, ma comune a tantissime famiglie eritree. Sto pensando alla storia degli Ascari che militavano nelle fila del Regio esercito: io stesso ho avuto due zii da parte materna arruolati negli Ascari, ed altrettanti che si erano schierati con i partigiani eritrei durante l’occupazione italiana del paese; tali contraddizioni e scissioni familiari, o di vedute, sono risultate fatalmente divisive sia all’interno del paese, sia della società civile in generale.
Per finire, meriterebbe uno studio approfondito il senso di appartenenza che, nonostante tutto, lega saldamente le nuove generazioni di emigrati o profughi alla madrepatria, soprattutto nel caso di coloro che avevano lasciato l’Eritrea in via definitiva ed ancor più tra i figli di seconda generazione nati all’estero che non hanno mai conosciuto il proprio paese: si tratta di migliaia di giovani sparsi per mezzo mondo che hanno acquisito cittadinanza e cultura dei territori di immigrazione, con appena una lieve infarinatura di lingua e cultura tigrina. Ma non è questa la sede per tali approfondimenti e ritengo sufficiente l’avervi fatto cenno.

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