Targa commemorativa del bombardamento aereo di Umbertide

Cappuccetto Rosso. La casa della nonna è nel bosco. Gli alberi, gli uccellini, il cielo altissimo che propone gli azzurri, l’odore di muschio, i fruscii degli insetti, i colori volatili quasi trasparenti delle farfalle.

Dentro la casetta tutto è in ordine. In cucina, la tovaglia a quadrettini rossi, il camino con lingua gentile narra tempi e spazi bruciando i rami secchi raccolti tra i gusci. La vediamo quasi curva ma salda nella sua antichità, la nonnina che tiene nel suo cuore le radici della foresta dentro cui vive. È lei l’incarnazione della foresta, l’espressione umana della foresta. Colei che sceglie di non abitare nel villaggio per stare in quel colloquio vegetale e animale, coltissimo anzi sapienziale.

Qui interrompo la mia narrazione, perché il luccichìo insanguinato della lama del cacciatore mi sforbicia gli occhi. Ha appena squarciato la pancia del lupo. Nonna e nipotina saltano fuori, vivissime e integre. Dunque le ha salvate? Dunque, come ogni storia, il male ha bisogno del coltello. È necessario entrare nella carne dell’altro, non solo fermarlo, punirlo, toglierlo di mezzo. Farlo divenire pietra con il ventre di pietra.

Penso al lupo che, ricucita la sua pancia di pietre, muore.

All’origine, la preistoria andava così: da una parte i cacciatori da una parte i raccoglitori. Qualche volta anche insieme, forse. Ma i gesti sono diversi, culturalmente, psichicamente, esistenzialmente: lanciare, proiettare, penetrare, trafiggere, imitare il verso per camuffarsi uccidendo oppure aprire il palmo, trovare, riconoscere, accogliere, usare l’intelligenza per creare il raccoglimento oltre che la raccolta, la cura, la nutrizione del sé e del noi.

In Cappuccetto Rosso, il protagonista salvifico è il cacciatore, appunto. Lo stesso che disubbidendo alla Regina, salva Biancaneve, portando il fegato e i polmoni non della ragazzina ma di un cinghiale.  Ha comunque ucciso. Una vita per un’altra. Si è davanti a una scelta di priorità, nella premessa inconfutabile che alla violenza può rispondere solo altra violenza, unica, necessaria, e legittima chiave risolutiva.

La versione dei fratelli Grimm è l’unica a riportare il taglio della pancia. Fu trascritta nel 1812 dalla bocca di una giovane di origine borghese e di madre francese. Qui, è lo stesso Cappuccetto Rosso che aiuta il cacciatore a riempire di grosse pietre la pancia del lupo.

La versione precedente di Charles Perrault, scritta alla fine del diciassettesimo secolo, così come le altre da tradizioni orali di province francesi raccolte alla fine dell’ottocento nel bacino della Loira, nel Nivernese, nel Forez, nel Velay o, più recentemente nella parte settentrionale delle Alpi, escludono il cacciatore, ma fanno perno sul cannibalismo. Il lupo mangia la nonna. Anche Cappuccetto mangia la carne della nonna e beve il suo sangue e dopo si infila nel letto dell’anziana donna, che in realtà è il lupo travestito, così che la ragazzina viene a sua volta sbranata.

I miei studi nella tradizione orale, dal mito alle fiabe, mi conducono a rilevare due dinamiche ancestrali disumanizzanti: l’arma che uccide e l’istinto cannibalico. Entrambi, nel corso dei secoli, si sono evoluti, per modo di dire.  Siamo arrivati a concepire la bomba atomica, e le radici cannibaliche producono comportamenti fagocitanti, aggressivi, di fame consumistica, di potere bulimico. 

Alla demonizzazione del lupo, studio molto interessante, si aggiunge il pensiero dell’inevitabilità del male, come unica misura di sopravvivenza, o di espansione o di difesa.

Una cultura altra pianta nello stesso bosco il lupo che, forse a digiuno, guarda caso, colloquia con Francesco.

Non richiamo qui tutta una serie di nomi e cognomi in tutto il mondo che hanno lavorato con il proprio corpo per l’intelligenza amorevole (qui l’accezione è tutt’altra che sentimentalmente melensa) di coniugare gli esseri, in una complementarità di rispetto, di diritti reciproci, di governo e mediazione della complessità.

Colgo una parola dal vocabolario: Resistenza. Esistere due volte. Biologicamente e culturalmente: dominare la propria fame, nella consapevolezza di costituirsi integralmente, nel pensiero e nell’azione, contro la lama e il cannibalismo. Quanti e quante nel mondo hanno dato la propria vita, nel senso letterale del termine, per questa scelta. 

Estraggo la poesia straordinaria di Gisèle Guillemot raccolta nell’antologia poetica dal lager femminile di Ravensbück, a cura di Paola Moretti, edita dall’Enciclopedia delle donne nel 2024. Traduzione di Maria Luisa Vezzali.

                                                  A mia madre

Ascolta, mamma, te lo dirò

Ascolta, devi capire:

io e lui non potevamo sopportare

i libri bruciati

le persone umiliate

e le bombe lanciate contro i bambini di Spagna.

Così abbiamo sognato

Fraternità.

Ascolta, mamma, te lo dirò

Ascolta, devi capire:

io e lui non potevamo sopportare

le prigioni e i campi,

le persone torturate e quelle fucilate

e i bambini stipati nei treni

così abbiamo sognato

libertà.

Ascolta, mamma, te lo dirò,

ascolta, devi capire:

io e lui non potevamo sopportarlo.

Quindi abbiamo combattuto.

Quindi abbiamo perduto.

Ascolta, mamma, devi capire,

ascolta non piangere.

Domani, senza dubbio, ci uccideranno.

È duro morire a 20 anni

Ma sotto la neve germina il grano

E già fioriscono i meli.

Non piangere.

Sarà così bello domani.

Gisèle Guillemot è nata nel 1922 a Mondeville, nel Calvados, in Normandia. Trascrivo dalla sua biografia. Partecipò ai movimenti sociali del 1936, al Fronte popolare, alle azioni a sostegno della Repubblica spagnola. Quando i tedeschi occuparono la Francia nel 1940, Gisèle aveva 18 anni, lavorava come stenodattilografa ed era simpatizzante comunista. Dal dicembre 1940 partecipò alla Resistenza, inizialmente in una rete di sostegno ai clandestini procurando nascondigli e buoni pasto. Nel 1941 era a capo del Front patriotique de la jeunesse nel Calvados. Dal 1942 fu coinvolta nel sabotaggio dei treni tedeschi. Fu arrestata il 9 aprile 1943 e condannata a morte, deportata a Ravensbrück, successivamente trasferita a Mauthausen, dove venne liberata dalla Croce Rossa Internazionale. Nei campi scrisse la maggior parte delle sue poesie che tuttavia al ritornò bruciò, convinta che non avessero valore. Ne rimasero solo quattro, scritte su un taccuino giallo che aveva trovato su un treno arrivato a Ravensbrück. Al ritorno si scontrò con l’incomprensione generale e anche con quella materna. Dopo tre mesi trascorsi in un sanatorio svizzero decise di trasferirsi a Parigi. La rivista comunista presso cui lavorava la licenziò quando chiese di parlare dei gulag sovietici. Iniziò così a lavorare nell’edilizia.

Negli anni ’80, di fronte al dilagare delle tesi negazioniste, decise di uscire dal suo silenzio e viaggiò attraverso la Francia, per testimoniare in particolare nelle scuole. È morta a Parigi il 31 gennaio 2013.

Alla sua poesia aggiungo la testimonianza straordinaria della voce di Mirella Alloisio, riproponendola in una registrazione, già pubblicata qui in cartavetro. Mirella Alloisio, nata nel 1925 a Sestri Ponente, staffetta partigiana, ancora oggi luminosa testimone e vivissima, colta pensatrice. Con lei, attraverso le sue parole, ho scritto per Terra d’Ulivi, nel 2017, La Resistenza continua, un libro intervista prezioso che contiene il senso politico del vivere nel concepire la politica come opera di servizio per tutta la comunità.

Vi invito a un ascolto attento.

Qualcuno può pensare che tutto questo faccia parte di una memoria da archiviare, non rapportabile a oggi, un modo di insistere su altri tempi, altre diverse situazioni, altri contesti differenti dalle urgenze attuali.

Io credo nella connessione e perpetuazione di certe dinamiche. Per questo ho acceso l’inchiostro dalla tradizione popolare della notte dei tempi. Fatti ed esempi di oggi riconfermano o fanno riflettere sulla significativa, drammatica, caduta etica, su una decadenza sociale, cultura, politica che svena lentamente conquiste di diritti, piazze di scambio generativo, cuori di memoria collettiva.

La data del 25 Aprile dentro cui scoccano le parole Resistenza e Liberazione, tessute in un’unica polpa sostanziale che nulla ha a che fare con la retorica ma, molto con la consapevolezza del passato, del presente, del futuro, mi porta a un ricordo doloroso: al Premio Umbertide XXV Aprile di poesia.

Nel settembre 2016 fui contattata da Paolo Pistoletti, per presiedere alla giuria del Premio XXV Aprile di Umbertide, nella sua riqualificante e rinnovata impostazione. La giuria, inizialmente, si è composta da Marco Bellini, Stefano Guglielmin, Rita Pacilio, Sebastiano Aglieco, dallo stesso Paolo Pistoletti, e Sergio Bargelli alla segreteria. La motivazione di ricostituire con più energia una forza culturale nel paese in grado di proiettare l’immagine del comune di Umbertide a livello nazionale, e inoltre, la stima e l’affetto per Paolo Pistoletti, mi convinsero ad accettare. Non solo. Sono e resto profondamente legata a Umbertide per tre motivi: da un punto di vista personale, vi ho passato parte della mia infanzia e adolescenza, per il mio lavoro con la comunità terapeutica di Torre Certalda, A.S.A.D. , e per il mio rapporto con le prime edizioni del Premio di Poesia di Umbertide, a cui da giovanissima partecipavo.

Proprio durante le cerimonie del premio, conobbi i suoi fondatori: Raffaele Mancini e Mario Bartocci. Carissima è stata per me la figura di Umberto Zoppo, allora presidente del Centro Socio Culturale San Francesco. Con il maestro Raffaele Mancini ho avuto un vero e proprio scambio intellettuale oltre che affettivo, malgrado la notevole differenza di età. Mi trasmise il significato di quel premio, come continuazione di una resistenza di valori per tutta la comunità, da portare avanti a spalla oltre che a suon di scrittura e di voce.

La data che riporta l’intestazione del premio, si riferisce al 25 aprile come giorno di liberazione ma quel giorno ricorda soprattutto la data del massacro ai danni della cittadina di Umbertide: alle ore 10 e 20 del 25 aprile 1944, infatti, una squadriglia di caccia-bombardieri anglo-statunitensi sganciò due bombe con l’obiettivo di colpire i ponti sopra il Tevere. Il bersaglio fu mancato e venne investito il centro storico e fu raso al suolo il quartiere di San Giovanni (oggi Piazza XXV Aprile).

Le vittime del bombardamento furono 74.

L’allarme non venne fatto suonare per espresso divieto del prefetto di Perugia.

Nel pomeriggio un secondo bombardamento distrusse una delle arcate del ponte sul Tevere.

Il centro di Umbertide fu ridotto ad un cumulo di macerie: oltre il 50% delle abitazioni venne raso al suolo, 900 furono gli sfollati.

Iniziò da quel giorno l’esodo degli abitanti verso le campagne fino all’arrivo degli Alleati, il 5 luglio 1944.

Con questo significato ho accettato la presidenza del premio. Quindi, oltre a un incarico letterario, si trattò per me di un impegno civile di passaggio di testimone, dentro cui portare la poesia. Poetica e politica si assorellano come credo e cerco di praticare.   

Come in ogni progetto, ci sono state negli anni, discussioni, aggiustamenti, riflessioni che hanno comunque sempre condotto a una mediazione di rigore, onestà e notevole qualità.

L’ultima edizione del premio è stata nel 2023. L’amministrazione comunale di Umbertide ha deciso l’interruzione malgrado i miei lavoratissimi tentativi di salvare il progetto. Ho presentato all’amministrazione due progetti scritti e molto articolati, riducendo praticamente a zero le spese. Per due volte sono stata convocata a colloquio. Ho ideato nel mio piano il coinvolgimento di ciascuna componente della comunità: commercianti, scuole, scuola di musica, ospizio, teatro, cinema, biblioteca, anche la collaborazione di diversi miei amici artisti. In modo tale da creare un’orbita turistico culturale, anche economica, di aggregazione, partecipazione, presenza sociale e artistica. Ho dato la mia disponibilità per iniziative durante tutto l’anno da compiersi in biblioteca e nelle scuole. Un volontariato di presenza e impegno in nome del premio.

La mia disposizione collaborativa è sempre rimasta ferma sulla nominazione del premio, ritenuto per le ragioni esposte sopra, significativamente fondante. Nome ormai noto nel panorama nazionale, con vincitori di rilievo.

A tutt’oggi, pubblicamente non c’è intenzione fattiva da parte dell’amministrazione di riprendere il premio. Né offrire una motivazione chiara, ufficiale, francamente motivata sulle ragioni di questa voluta chiusura, che voglio interpretare fiduciosamente come sospensione temporanea. La decisione doveva essere rivolta primariamente alla cittadinanza. Anche a me, in qualità di presidente, alla giuria nei suoi singoli componenti che negli anni hanno lavorato del tutto gratuitamente solo per il valore in sé del premio, affrontando personalmente persino le spese di viaggio. Questo scrivo per dar peso, consistenza, trasparenza all’impegno sostenuto negli anni dai noi tutti, e rilevandone la gratuità generosa non riconosciuta.

La letteratura, l’arte, il pensiero hanno in sé un lavoro che costituisce imprescindibilmente l’economia della comunità. La sua salute.

Soltanto una persona di Umbertide mi ha chiesto direttamente, offrendo con passione la sua disponibilità. Il silenzio degli Umbertidesi è speculare al tragico e pericoloso astensionismo nelle votazioni, fenomeno che registriamo negli ultimi anni nel nostro Paese.  E non solo.

La mia narrazione ha diritto di esistere. Anzi, è un dovere per me che ho lavorato in questi anni, in questa responsabilità, assumendomi una posizione pubblica a Umbertide, nel premio, altrettanto pubblica come quella dei singoli componenti dell’amministrazione comunale. Ognuno di noi risponde per la propria responsabilità assunta nei confronti della comunità e del proprio lavoro.

Ognuno ha diritto di fare scelte. Certamente anche un’amministrazione. E ognuno ne risponde.

Personalmente, rimango aperta al dialogo, all’ascolto, al fare insieme. Capitini insegna.

Di fatto ogni volta che si toglie un’occasione di riflessione, di crescita, di confronto, di bellezza condivisa è togliere cultura.

Togliere cultura è anestetizzare le persone, è devitalizzare una comunità. È un’altra forma di coltello, credo.

La primavera si apre ai fiori e alle rondini. Ce lo ricordava, ce lo insegnava Etty Hillesum dalla baracca, malgrado tutto.

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  1. Avatar Lorena
    Lorena

    Contributo altissimo!
    Grazie,Anna Maria!!

  2. Avatar Beatrice
    Beatrice

    La passione qui espressa per la cultura, la memoria civile, la libertà di pensiero è il modo migliore per onorare una data che contiene coraggiosa storia corale e partecipata sofferenza di inermi nella guerra. Questo è un bel modo di essere nella poesia.

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