Etiopia: il loro sorriso

In Etiopia. Era un ricordo da manuale di storia – le nostre ‘vergogne’ coloniali! – ed un desiderio intessuto intorno a fantasie per Lucy, peraltro affievolite nel tempo, dopo che più importanti ominidi sono subentrati a diminuirne l’importanza, se non addirittura a scalfirne la collocazione sulla linea dell’umanità. Lei, però, Lucy, uomo o donna che fosse, comunque non ha mai smesso nella mia testa di tremare nel buio notturno della grotta, insidiato dai passi felpati dei predatori, tutt’una a mucchio coi piccoli e gli altri del gruppo, lì davvero mia sorella. E poi, nel giorno dell’intelligenza, saltellare intorno al monolito di Kubrick, per arrivare ad afferrare una tibia da roteare a clava sulla testa di un proprio simile e nemico. Il passo fino alle ‘imprese’ coloniali è così breve da coincidere.
Invece mi è venuta incontro, subito, nella prima alba nebbiosa verso Nord da Addis Abeba, e poi continuando così per tutte le strade – asfaltate, bianche, polverose, sventrate dai lavori in corso dei cannibali cinesi, a picco su baratri da asma, inerpicate sotto falesie ritte come muraglie, dritte a riposo sugli altipiani – mi è venuta incontro la gente, tanta gente – tutta la gente, pensavo, tutta dell’Etiopia. Tutta per strada, con la schiena piegata da carichi incredibili, a volte a fianco di piccolissimi asini anch’essi sotto immensi basti; oppure, da pellegrina, con gli abiti buoni ripiegati nel fagotto, magari insieme a un tegame, un fusto per l’acqua, uno straccio da fare tenda, appesi al bastone di traverso sulle spalle, oppure al lungo bastone liturgico ascellare o a un comune bastone da montagna. Gente che va regina, diritta come in una sfilata, gente che va di passo svelto da maratoneta, gente che va sempre dalla prima all’ultima luce delle sei. Dove? Al merkato (qui è diverso, ha la kappa), alle chiese per le cerimonie (del Natale, del Timkat, a gennaio), a un matrimonio, a un funerale, alla fonte d’acqua, anche per tantissimi chilometri, in certi casi anche per decine di giorni, in avanti o a ritroso, nell’esodo del ritorno – ti dicono i bravi mediatori tra le nostre reciproche alienità. E ai lati della strada le case di sterco e fango, di assi e pali, qualche volta di massi, con finestre e porte (e tetti, ma non sempre) di lamiera. Sempre piccole, troppo piccole per tutta questa gente. E, per quanto è possibile sbirciare, vuote. Di quasi tutto, il nostro minimo (sedie, tavolo, letto, fornello, armadio, lampade…) e il loro (quello che servirebbe per coprire anche la parte sotto la cintura, un vestito della carità occidentale di taglia giusta, un pannetto per la notte, una medicina per la febbre, un bicchiere d’acqua potabile…). Intorno pascoli secchi con piccole mandrie (anche le mucche e i tori sono di misura piccola), minute greggi di capre e pecore, somari, qualche cavallo; tutti che, quando sono in carreggiata, la fanno da padroni, non si spostano neanche se gli vai quasi addosso: nessuna paura di clacson, sgassate, imprecazioni, urla; qualche pastorino, anzi, ti si butta davanti, proprio in mezzo, per farti con orgoglio tre mosse della danza del guerriero. I dromedari (o cammelli, non si capisce mai quante gobbe abbiano sotto la soma) vanno quieti e lemmi lemmi di statuto, non se ne parla neanche di spostarsi, ma per fortuna spesso sono in file indiane perfettamente allineate. E ancora e sempre intorno campi e campi, di cereali soprattutto, per la birra e quella specie di panbagnato che è l’injiera. E covoni, e qua e là mucche e buoi che girano sul raccolto sparso a terra in un tondo di dieci metri massimo, per separare seme e paglia; e qualche aratro a piantare il pungiglione (spesso nemmeno a versoio) nella terra secca e farinosa. E se non sei in piano, ma per le chine scoscese dei tremila metri, coltivi a terrazza: terrazze e terrazze, anche minime, appena un accenno sotto la polvere, anche di soli due metri in larghezza, che frenano il dirupo della montagna, le slavine della terra buona nella stagione delle piogge. E se passi presso uno di quegli alberi dai tronchi contorti e i bracci larghissimi tutt’intorno come enormi funghi, sotto cui a volte giocano bambini o gente si riposa dal sole mentre guarda le capre o si incontrano quelli del villaggio, si voltano sempre e alzano la mano a salutarti, la bocca aperta in un sorriso. Be’, se la zona è più turistica, se sono stati abituati a ricevere qualcosa, soprattutto i ragazzi corrono addosso al pulmino: pen, pen, ma gli va bene anche una caramella, meglio una maglietta o un paio di ciabatte infradito. No, non si deve dare niente, perché li si abitua all’accattonaggio, si può fare ‘beneficienza’ con le associazioni predisposte, se si vuole, non bisogna contaminarli. Se poi la ragazzina apre di colpo il pannetto che si stringe addosso e ti fa vedere che sotto è nuda, be’ non cambia la questione, ma di sicuro, soprattutto dentro la polpa del cuore, molto si complica.
Quando si fermano dal loro andare, nel merkato o nelle chiese o nei funerali, stanno tutti accalcati insieme, come sciami come stormi, in spazi piccolissimi. A volte fermissimi, statuine del presepe, che se sei lì a fotografare con la foga maniacale di chi poi a casa deve ben vedere tutto quello che non ha guardato qui con gli occhi, ti osservano con curiosità perplessa, se va bene, se no come si è testimoni di un ossesso. C’è, di qua dall’obiettivo, un diaframma che non si oltrepassa mai, una sfuocatura, una polvere che annebbiano l’oggetto, lo allontanano, quell’ ‘altro’ di là, biancovestito di garza, etereo come un fantasma o un sogno, a volte coloratissimo nel turbante o nel mantello, che non sai però cosa segna: religione etnia eleganza, colore della vita…

Etiopia: ritorno dal Natale a Lalibela


Qualche volta ci sei in mezzo per forza, immerso come in un mare, con le correnti che ti trasportano anche dove non vuoi, al largo, lontano dalle boe fidate dei tuoi… ci sei e li tocchi, ti toccano, e non è come in fiera, a spintoni palpate pestoni, non è come in autobus, traballanti di qua e di là afferrati a caso per non cascare, no. Ė un contatto leggero, gentile quasi come l’amante che ti deve far passare la ritrosia. Non finto però – per intenderci: quel toccarsi appassito da smorti quando invece si dovrebbe stringerla, la mano – non finto. Che ti accorgi di essere carne. Ma non quella da palestra o da dietologa, che sei abituata a misurare. Carne del mondo, carne di contatto materico concreto con qualcosa di tutto quell’altro-da-te che è l’universo, carne-essere, anzi, carne-esserci. Che ti accorgi della sororità che dovrebbe tenere insieme tutte le cose, che forse le tiene davvero. Tutte.       

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