Foto di Michael Drummond da Pixabay

Credo che occorra riaprire continuamente, concretamente, organicamente, le parole, ruminarle interiormente nei loro significati. Non chiacchierarle tra le labbra, esplodendole in bocca come gusci vuoti. Abbiamo la responsabilitĂ  di portare in corpo la lingua praticandola con consapevolezza e approfondimento.

La parola che a cuneo è infilzata nella storia umana è guerra.

C’è stato e c’è chi ha messo e mette il proprio corpo per sradicare il suo cuneo assassino, accusando a voce alta o scritta la sua banalità mortifera. I nomi e cognomi e l’opera di queste persone dovrebbero essere distribuite come pane caldo alla mensa degli asili e di ogni scuola, negli ospedali, in tutti i luoghi pubblici, perché nei luoghi pubblici non dovrebbe dominare la superficialità economica del mercato, del profitti e perdite, ma l’economia dei valori comunitari fondanti. Il tappeto di nomi è lungo e si compone di infiniti volti come bandierine tibetane su un filo contro vento. Infiniti corpi che non bastano.

Io riparto dal basso, dai quasi anonimi.

Ascolto le voci che costituiscono la memoria vivente della guerra. Riparto da coloro che l’hanno vissuta e che, per questo, hanno il diritto di raccontarla, riconsegnandoci il sangue, l’orrore, la fame, la disperazione, il terrore, la morte nell’atomica del suo boato.     

Andiamo a lezione da queste voci come formazione civile.

Ho intervistato Ferruccio Rondana l’8 giugno scorso. Ho conosciuto diversi anni fa quest’uomo e sua moglie, entrambi a me carissimi, di molto e molto e molto cuore, di gentilezza solidale e dignitĂ  elegante e esemplare. Ho chiesto a Ferruccio la sua testimonianza per la nonviolenza qui su CartaVetro. Mi ha abbracciato e aperto casa. Si unisce ai nomi di quel tappeto, di quelle bandierine tibetane controvento: ci dona la sua voce e la sua memoria. Lo ringrazio a nome di tutti e di tutte.   

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