Meister Eckhart! Chi era costui?
Ho parafrasato il noto interrogativo del don Abbondio manzoniano ‒ che si chiedeva chi mai fosse il filosofo scettico Carneade ‒ per dire come purtroppo uno dei più eccelsi tra i mistici d’ogni ispirazione/tradizione religiosa sia oggi ancora sconosciuto ai più. Eppure Coomaraswamy, eminente studioso dei rapporti fra la spiritualità orientale e occidentale, ebbe persino a sostenere appassionatamente che Eckhart: “può essere considerato da un punto di vista indiano come il più grande fra tutti gli Europei”.[1] Iperbole a parte, del Nostro si ricorda ‒ oltre al nome proprio ‒ soprattutto il titolo: quello di maestro o magister, ossia di professore presso l’Università di Parigi, dove tenne cattedra per ben due volte nella sua intensa vita di domenicano. Egli infatti non fu solo insegnante ma dapprima priore nel convento di Erfurt, quindi provinciale di Sassonia e poi di Teutonia. Fu inoltre apprezzato predicatore in vari monasteri e maestro di teologia a Colonia dove tuttavia, nel 1326, venne aperto nei suoi confronti un processo per eresia, che si concluse nel 1329, ad Avignone, con la condanna del Meister (morto comunque due mesi prima) da parte di papa Giovanni XXII.[2] 
Grazie però ai suoi discepoli Suso e Taulero, a Niccolò Cusano e a vari altri autori/mistici tedeschi l’opera del Nostro fu salvata e tramandata ai posteri. Ma l’attenzione internazionale per gli scritti eckhartiani è di molto aumentata soprattutto nello scorso secolo e prosegue nell’attuale. A tutt’oggi il grande renano è tradotto in svariate lingue e innumerevoli sono i saggi intorno al suo insegnamento. Tant’è che Marco Vannini ‒ a mio avviso il maggiore esperto italiano del Meister ‒ ha di recente affermato che: “È molto probabile che la vera «fortuna» di Eckhart sia solo all’inizio”.[3]
In ogni caso, attualmente possiamo leggere nella nostra lingua quasi tutti i sermoni eckhartiani, alcuni suoi trattati e due grandi commenti (al Vangelo di Giovanni e all’Antico Testamento). Questi ultimi ‒ come molte prediche ‒ furono redatti in latino; ma sono i 123 sermoni e i 4 trattati in volgare alto-medio tedesco, o Mittelhochdeutsch, a essere di maggiore interesse per la loro valenza mistica. Non che vi sia, dal punto di vista chiamiamolo contenutistico o dottrinale, notevole differenza fra scritti latini e tedeschi. “Ciò che è diverso” ‒ nota un altro considerevole studioso del pensiero eckhartiano: Loris Sturlese ‒: “è però la forma, che nella testualità di tipo universitario segue il modello tradizionale del discorso scientifico rigorosamente razionale, mentre nella predica consente ad Eckhart di sviluppare i suoi argomenti all’interno dell’emozionalità e della performatività caratteristiche del genere letterario”.[4]
Una cosa è certa: i sermoni tedeschi sono testimonianza d’un intento senz’altro meritorio/provocatorio: rinnovare il modo d’esser cristiani. In primo luogo aborrendo ogni pratica mercantilistica che veda il rapporto tra uomo e Dio basato sulla trattativa del do ut des: del faccio questo o mi comporto in un certo modo per ottenere qualcosa in cambio/premio dalla divinità.
Semplificando alquanto, si potrebbe asserire che la tematica basilare affrontata in questi testi sia l’esigenza di una condotta all’insegna dell’abnegazione e del “distacco” (abegescheidenheit) da ogni attaccamento mondano quali prerequisiti indispensabili a un approccio esistenziale/esperienziale di tipo mistico; ciò onde ottenere la generazione interiore del Logos nell’anima. Solo così ogni uomo giusto o nobile, per usare un termine caro al Nostro ‒ può divenire un essere divino, alla pari del Cristo. Ma se si intende far sì che il Figlio abbia a nascere nell’anima è necessario predisporla in modo che essa sia priva d’ogni forma di brama o egotismo, mediante un abbandono che è insieme magnanimità e non-dipendenza dall’inessenziale. Solo allora, puntualizza Eckhart: “il Figlio di Dio, il «Verbo fatto carne», abita tra noi, ovvero in noi stessi”.[5] Altrimenti, vedi il noto distico poetico di Angelus Silesius (tardo seguace del mistico renano): “Nascesse Cristo mille volte a Betlemme / E non in te; tu rimarresti perduto in eterno”.[6]
Commento caustico che ribadisce la dottrina eckhartiana sull’ineludibilità di far rinascere appunto il Figlio/Logos dentro ognuno di noi. Come a dire: non c’è intervento esterno, salvatore divino che possa elargirti alcuna redenzione se non fai tua la kenosis cristica, se non sacrifichi l’ego, mortificandolo. Non è bene infatti, secondo il magister, desiderare alcunché per sé: neppure la realizzazione spirituale, agognare la quale non sarebbe che una diversa modalità d’ambire comunque all’acquisizione egocentrica, al possesso. Possesso che in ogni caso mai si potrebbe ottenere, poiché la “deità” (gotheit) non è un oggetto e neppure un ente. Per questo, afferma Eckhart nel suo più noto sermone: “prego Dio che mi liberi da Dio” (Sermone n. 52, § 17); esortazione niente affatto blasfema, in quanto esprime l’auspicio d’essere affrancato da ogni forma idolatrica e da ogni pretesa acquisitiva.
Nell’ottica eckhartiana il distacco si coniuga dunque all’accettazione serena della realtà/esistenza, anche (soprattutto) quando essa comporti privazioni, pene, lutti. Un’accettazione non certo masochistica, che non ha nulla della passività o dell’apatia ma che si configura come una sorta di noluntas, di abdicazione alla propria volontà/egoità che appunto più niente vuole; eppure, paradossalmente, nulla volendo si ottiene assai: in ogni circostanza dimorando quietamente, imperturbabilmente. Solo così, per i mistici d’ogni epoca e luogo, gli uomini possono divenire ‒ qui e ora, non in un futuribile/ineffabile eden ‒ “beati” (saelic).
A proposito di beatitudine nella quotidianità/accoglienza del presente senza aspettative d’alcun genere, emerge con grande evidenza la prossimità tra Eckhart e il buddhismo ‒ come peraltro già da tempo sottolineato da D. T. Suzuki ‒,[7] resa ancora più accentuata dalla presa di distanza nei confronti d’ogni dualismo, ad esempio l’adesione ad astratte/infondate dicotomie, quali: immanenza‒trascendenza, naturale‒soprannaturale, io ‒altro-da-sé, bene‒male. Vere trappole concettuali da cui, secondo la lezione del filosofo renano ‒ chiamato da Heidegger Lebemeister: maestro di vita ‒, è bene liberarsi. Perciò l’uomo pneumatico: “nulla vuole, nulla sa, nulla ha” (Sermone 52, § 6). dualismo, ad esempio astratte dicotomie.
Va precisato tuttavia che questa serie di nulla si riferisce alla hybris (tracotanza) dell’egocentrismo e alla sua perenne tensione/smania desiderante, la quale non cessa con la soddisfazione d’alcun conseguimento; alla pretesa, inoltre, di comprendere intellettualmente ciò che valica i limiti dell’umano sapere (Dio); infine alla fame insaziabile di possesso/primato: in primo luogo quello, apparentemente encomiabile, costituito dal proposito di acquisire giusto la piena realizzazione spirituale.
Riguardo al massimo traguardo spirituale, il mistico tedesco è sin troppo chiaro: “se l’anima deve conoscere Dio, deve dimenticare se stessa e deve perdere se stessa” (Sermone 68, § 8). Solo questa presa di distanza consente all’anima di giungere al proprio “fondo” (grunt), che sembra non discostarsi molto dall’heiddeggeriano Abgrund: quell’abisso vuoto e senza fondamento che si pone al contempo come fondo dell’essere. Affermazioni eccentriche e immaginifiche, dirà qualcuno. Però sta in questo il paradosso dell’indicibilità con cui il mistico si deve sempre misurare: consapevole com’egli è dell’impraticabile tentativo di tradurre la sua esperienza a livello logico-discorsivo e al contempo dell’urgenza, frutto della compassione/charitas, di dover fornire una qualche bussola orientativa al pellegrino incamminatosi per l’arduo sentiero della autentica spiritualità.
Tornando al tema centrale dell’abbandono-distacco, mi sembra opportuno un ulteriore chiarimento. La posizione di Meister Eckhart non esprime certo rifiuto/disprezzo del mondo o disinteresse verso quello che cristianamente è indicato come il nostro prossimo. Qui non si tratta di mera apatia bensì di un salutare non-attaccamento a cose, ambiti o persone: sorta d’indipendenza che implica un modo di essere libero dalla soggezione nei confronti di alcunché. Il vocabolo abegescheidenheit, utilizzato dal mistico tedesco, corrisponde peraltro al termine sanscrito anabhīnivesa, che significa non-attaccato/non-aggrappato. D.T. Suzuki ‒ massima autorità in merito alla spiritualità Zen ‒, riprendendo l’opinione di Coomaraswamy, rileva una chiara consonanza tra il buddhismo e il misticismo cristiano del Nostro. Interrogandosi dunque su cosa significhi il distacco assoluto nelle irrituali prediche del teologo domenicano, Suzuki sostiene che: “Esso non può essere definito come “questo o quello”, come dice Eckhart. È il puro nulla (bloss niht), è il punto più alto in cui Dio può operare in noi a suo piacimento”;[8] oltre a ciò, proponendo la metafora della divinità come nulla assoluto, egli ‒ sempre secondo lo studioso giapponese ‒ sarebbe in perfetto accordo con la dottrina buddhista del sūnyatā (vuoto).
Ancora in relazione al motivo/fine basilare dell’insegnamento eckhartiano, va aggiunta una puntualizzazione: molte sue prediche insistono sull’invito, rivolto a uditori e/o lettori a prender le distanze da una religiosità meschina, tipica dei commercianti, di chi insomma si rivolge a Dio onde ottenerne ausilio, protezione o giovamento di qualsivoglia genere. Ma non basta: lo stesso desiderio di Dio alla fin fine non si scosta di molto dalle altre ambizioni mondane, più o meno nobili esse siano. Va ribadito altresì che rinunciare a sé stessi, ovvero alla propria egoità, è condizione prima e indispensabile per la mistica d’ogni tempo e luogo. In tale prospettiva non abbiamo pertanto a che fare con la rinuncia tout court al sapere rispetto alle cose (quello della scienza, per intenderci), ma piuttosto col venir meno d’ogni supponenza di poter giungere alla com-prensione di Dio: a farlo nostro, racchiudendolo in una determinata teologia o anche solo nell’intelletto. In quest’ottica Meister Eckart paradossalmente auspica Dio lo/ci affranchi persino dalla stessa sete di nutrimento ultramondano/divino o dalla velleità di avere sublimi esperienze contemplative; lo prega insomma di liberarlo e di liberarci da false idee/immagini di Dio e da qualsivoglia vana tesaurizzazione spirituale. Solo così si potrà accedere autenticamente all’ambito divino, e ‒ svuotatisi di tutto, nulla volendo, sapendo, avendo ‒ godere di tutto. Bisogna non avere più nulla (nada, nada, nada, rimarcherà Giovanni della Croce). Occorre appunto rivolgere quest’unica preghiera a Dio: “che mi liberi da Dio”. Qualche secolo dopo, Angelus Silesius ‒ sacerdote e di madre lingua tedesca, come Eckhart ‒ oserà scrivere: “Io devo ancora, oltre Dio, a un deserto tendereˮ; [9] cioè a un luogo/non-luogo indispensabile alla mia crescita spirituale, ove sperimentare l’assenza di Dio, il suo silenzio, la mancanza assoluta di ogni rassicurazione/consolazione religiosa a buon mercato.
In conclusione, il cammino indicato dal Nostro predicatore implica un non certo facile predisporsi alla totale accettazione nei confronti della necessità ineludibile, uno stoico amor fati ‒ o un cristiano fiat voluntas tua ‒ capace di trasformare tale consenso in incoercibile libertà (dalle illusioni e dalle vane brame, quantomeno). L’uomo spirituale, è bene reiterarlo, non deve pretendere alcunché da Dio. Solo così otterrà, gratis, la “beatitudine” (saelicheit) da una “deità” ‒ spirito o energia che tutto permea e da cui tutto proviene ‒ che in Eckhart appare spoglia di qualsivoglia ruolo/attributo le sia stato affibbiato da questa o quella filosofia, chiesa, dogma o tradizione religiosa; giacché da sempre per i mistici il divino è un insondabile, per quanto assai pregevole mistero.


[1]  A.K. Coomaraswamy, La tenebra divina. Saggi di metafisica, a cura di R. Donatoni, Adelphi, Milano 2017, p. 30.

[2]  È opportuno ricordare che tale pontefice fu criticato aspramente da Dante nel XVIII canto del Paradiso.

[3]  Cit. tratta dall’introduzione di M. Vannini a: Meister Eckhart, I Sermoni, Paoline, Milano 2002, p. 76.

[4]  Cit. tratta dall’introduzione di L. Sturlese a: Meister Eckhart, Le 64 prediche sul Tempo Liturgico, Bompiani, Milano, p. XXXI.

[5]  M. Eckhart, Commento al Vangelo di Giovanni, a cura di M. Vannini, Città Nuova, Roma 2009, p.110.

[6]  A. Silesius, Cherubinischer Wandersmann (Il pellegrino cherubico), Libro I, 61. (Trad. mia).

[7]  Cfr. D.T. Suzuki, Misticismo cristiano e buddhista. La via orientale e occidentale, trad. di M. Leoni, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1971.

[8]  Ivi, pag. 17.

[9] A. Silesius, Cherubinischer Wandersmann (Il pellegrino cherubico), Libro I, 7. (Trad. mia).

  1. Avatar beatrice trenti
    beatrice trenti

    E’ sempre importante leggere le riflessioni di Roat, che in un tempo di immersione totale nel mondo del volere prepotente, del potere vigliacco e pericoloso, dell’avere ingiusto ed egoistico, ci riporta ad Eckart e più in generale alla riflessione etica, per recuperare una possibile dimensione spirituale, che – come ribadisce più volte – non significa disinteresse e disimpegno verso il mondo, ma tentativo di abitarci in veste nuova, autenticamente aperti alla condivisione. Grazie, Roat. Non smettere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *