Carla Simons, LA LUCE DANZA IRREQUIETA

Edizioni di Storia e Letteratura (2023)

C’è un libro che circola da metà gennaio e che raccoglie recensioni e commenti. Si tratta di un diario, scritto da Carla Simons ad Amsterdam dal gennaio 1942 al maggio 1943: La luce danza irrequieta.
Lo pubblicano le Edizioni di Storia e Letteratura in un centinaio di pagine a cui si aggiunge la postfazione di Francesca Barresi che, insieme a Lisa Visani Bianchini, lo ha tradotto. Alcune foto a corredo documentano momenti e situazioni della vita di questa scrittrice olandese, morta ad Aushwitz a quarant’anni.
Il dattiloscritto è stato trovato nel Fondo Romana Guarnieri, presso la Fondazione Lercaro a Bologna. Si tratta di un fascicoletto di proporzioni un po’ più grandi di un foglio A4, sul quale è stato attaccato con nastro adesivo un post-it con la scritta ‘Bellissimo! da pubblicare anche in Italia!’, di pugno di Romana Guarnieri stessa. L’autrice fu per circa vent’anni la compagna di vita del padre, Romano Guarnieri, che, dopo la separazione dalla moglie, aveva scelto come luogo di dimora e di lavoro l’Olanda.

Appena aperto, il libro ci viene incontro con un’affermazione che impone una sosta: “meglio subire in silenzio il presente – senza desiderare il passato – né protendersi al futuro”.
Carla Simons è in attesa che qualcosa muti nella sua vita, perché, intorno a lei, giorno dopo giorno le notizie si fanno più allarmanti, i segni della persecuzione degli ebrei più chiari, netta la determinazione nazista al loro annientamento. È ebrea, e proprio a gennaio del 1942, quando comincia il suo diario, comincia anche la deportazione degli ebrei olandesi al campo di concentramento e transito di Westerbork, luogo dal quale poi partiranno per Auschwitz, Sobibor, Bergen-Belsen e Theresienstadt, nella stragrande maggioranza dei casi senza fare più ritorno. Carla sta aspettando che qualcosa cambi nella sua vita. L’amatissimo Romano sta facendo di tutto per salvarla: contando sulla sua fama di italianista affermato e stimato nelle università olandesi, chiede di poter portare in Italia la compagna e ottiene in un primo momento il permesso delle autorità olandesi e del governo italiano. Arrestata il 3 agosto del 1943, Carla viene infatti rilasciata il giorno successivo per il ruolo importante del professor Guarnieri nella comunità olandese e nelle relazioni italo-tedesche. Si tratta tuttavia di un attimo: non appena Mussolini ritorna, grazie all’intervento tedesco, dalla prigionia di Campo Imperatore e inaugura la Repubblica di Salò, nessuna forma di tolleranza è accolta e la lettera firmata da Adolf Heichmann in persona, il 27 settembre 1943, non lascia speranza:
“Oggetto: Ebrea di nazionalità olandese Caroline Simons, nata ad Amsterdam il 29.04.1903.
A causa dei mutamenti politici nel frattempo intervenuti, non vi è più alcun motivo per interessarsi ulteriormente alla partenza della suddetta ebrea verso l’Italia. Ho quindi incaricato il mio ufficio de L’Aia di portare immediatamente la Simons in Oriente per incarichi di lavoro.
A nome Eichmann”
Il destino di Carla Simons è segnato. Nell’ottobre del’43 entra nella caserma penale di Westerbork per essere deportata ad Auschwitz ed esservi uccisa il 19 novembre dello stesso anno.
Il suo diario, che viene scritto nei giorni cruciali delle deportazioni, registra, mese dopo mese, le trasformazioni della amatissima città di Amsterdam, il suo progressivo perdere luce e smalto per gli episodi sempre più frequenti di dolore e morte che la investono: un uomo si incammina sulle rotaie del tram e non si sposta, cerca la morte. Sul suo corpo riverso spicca la stella gialla. “Un corteo nuziale nella Van Baerlestraat. Tre carrozze trainate da magri cavalli… tutto mi appare grottesco, come una caricatura di cose passate”. “Il nostro entusiasmo si è lentamente intorpidito, spento, offuscato. L’amata città sembra lontana e mutata per sempre. Non un barlume di quella scintilla che una volta sembrava inestinguibile. L’incantesimo malvagio continua a incombere su di noi… Davanti a me sfila la truppa dei soldati. Pronti, scattanti, nelle loro grigie uniformi, nell’orrenda regolarità meccanica del passo, del movimento delle braccia, del canto.”
“Nessuno può rendersi conto dell’atmosfera che si respira in città senza aver vissuto questi giorni”
“Ogni sera vedo quegli sfortunati partire, con la valigia e il fagotto, con un bambino per mano o in braccio. Sono in strada, e la loro casa, con tutto ciò che gli apparteneva e faceva parte della loro vita, è improvvisamente lontana, irraggiungibile, come se appartenesse a un’immagine onirica”.
Carla è sola nella casa perché Romano è in cerca di un’ancora di salvezza per lei; poche volte lo nomina, ma la sua presenza è forte, avvertibile nelle pagine che parlano dell’Italia, nella memoria di tanti luoghi visitati insieme a lui, di tanta conoscenza acquisita nel tempo con lui: Michelangelo della Cappella Sistina, Giotto della Vita di San Francesco ad Assisi, i canti della Commedia, o i concerti alla Scala con il trasporto fisico prodotto dalla direzione di Toscanini, e soprattutto i libri di Romano: “Penso ai libri di Romano distrutti dall’uso, ai suoi appunti furiosi. ‘Usate il libro con riverenza’ dicono gli educatori di garbo. Dove c’è più riverenza, più amore, più unità che nella nostra malconcia biblioteca, che rappresenta il nucleo, l’essenza della nostra casa? Mi fanno rabbrividire le persone troppo regolari, i libri troppo sistemati, le stanze troppo ordinate. Non c’è corrente che li attraversi, la vita non li tocca intensamente”.
Con Romano Carla ha imparato ad amare la cultura italiana, ha fatto viaggi meravigliosi tra il 1929 e il 1934, si è avvicinata alla letteratura oltre che all’arte figurativa e, dopo la pubblicazione di romanzi in olandese, traduce dall’italiano diversi scritti, l’ultimo dei quali, Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, uscirà postumo nel 1945.
Più di ogni altra forma d’arte però è la musica che emerge nitida dal suo diario. “Stava sul palco abbandonata l’arpa di Rosa…”; Rosa Spier, solista per il Concertgebouw di Amsterdam, non può più suonare perché tutti i musicisti ebrei sono estromessi dalle orchestre d’Olanda, e il suo strumento sta lì come “una fonte sigillata di tenerezza canora”. E il pianista ebreo ungherese Imre Ungar, cieco che “parla con l’anima” e induce ad attraversare la vita ‘vedendo’, suona un preludio di Bach o le dolorose note della Winterreise di Franz Schubert; ma anche lo studio di una sonata di Beethoven che passa dalla casa dei vicini porta la memoria del padre musicista e consente un abbandono, il risveglio di ogni fibra del corpo, il piacere di riconoscere ogni melodia.
Il diario del mese di aprile, penultimo nella scrittura di Carla, ha il suo fulcro proprio nell’irruzione della Nona Sinfonia di Beethoven attraverso la radio: “I suoni imperfetti di una radio difettosa risvegliano la commozione più profonda, una sensibilità nascosta, una vibrazione inafferrabile che si libera dalla parte più inconscia di me. E quanti ricordi si risvegliano, quanti risalgono a una giovinezza che sembrava passata, i cui frutti agrodolci sono ancora nascosti dentro di me”.
Ma nell’alternarsi di musica e poesia, di incanto per una natura che spiega le sue evoluzioni nonostante l’orrore della guerra, di scambio con amici che resistono alle imposizioni di un regime d’occupazione militare, la linea che più travolge, nella lettura di questo diario, è quella delle considerazioni profonde che Carla Simons via via esprime. Le basta toccare un ramo d’albero dalla finestra di casa, guardare una foto, osservare un uccello in volo o posare lo sguardo su un cesto di mele per constatare come la guerra non lasci alcuno intatto. Solo la poesia, Rilke o Henriette Roland Holst, riesce a restituirle per un poco quello che chiama il “mio clima spirituale”, ma l’osservazione vigile di quello che capita sotto gli occhi la induce anche ad un ripensamento: respinge il desiderio che le cose tornino come prima della guerra, non vuole dimenticare, si ritrae dall’ “immagine panciuta e grottesca del compiacimento borghese”.
E la paura, l’abbandono della casa, il fare le valigie per un altrove del tutto ignoto diventano sprone per una trasformazione, quasi una grazia che consente di capire cosa significhi il dolore.

  1. Avatar Eugenio Parziale
    Eugenio Parziale

    L’ho letto anch’io . Mi ha colpito questo io lirico che si tiene a distanza dall’orrore. Direi anche spiazzato . Sono combattuto se dare un valore positivo a questo tipo di scrittura che lambisce la prosa d’arte.

  2. Avatar ne
    ne

    Forse non si tratta di dare valori, positivi o negativi, ma di prendere questa maniera di scrivere e collocarla nella dimensione dell’attesa che le è propria. Certo lo sguardo fine sulle cose e sulle situazioni viene a questa scrittrice dall’arte, dalla musica, dalla cultura. Grazie per il commento.

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