E’ una disamina della nostra società molto dura quella che Monica Guerra ci mostra nei versi di questa silloge. Senza permettere all’emozione di limitare la durezza della denuncia, trattenuta, sottesa, quasi compressa da un estremo prosciugamento della lingua, che arriva anche a forzarne la struttura, quando non ne complica pure il portato logico, con l’uso, ad esempio, di certi enjambement – una cifra stilistica della prima sezione – che polisemicamente possono aprire feconde ambiguità: “presto verrà l’autunno avvertivi / lasciando la mia mano sopra i nidi / d’agosto sorridevi / alla resa dei germogli / (…) / non è più la stagione dei germogli / ma l’arco fiorito delle tue ali ridevo / com’è giusto in mano / alla spina dei giorni disabitati”. Poesie quasi sempre molto brevi, ritmate da una sicura tessitura prosodica, dal respiro dei vuoti frequenti tra i versi, dagli ‘aparte’ sospesi degli incisi; poesie che lungo le quattro sezioni, introdotte da exergo non solo di grande spessore significativo, ma di apertura propedeutica, tagliano attraverso, incidono, sezionano la nostra attuale realtà di individui sociali. Significativo il titolo della prima sezione, La misura del vuoto, che rende immediatamente la tragedia attualissima della pandemia. C’è tutta la sorpresa, l’angoscia, anche la reticenza, l’incredulità del primo lockdown: “ma qui è sparare a raffica all’orizzonte”, “fuori è rovo”, “sporadiche razioni di luce e del resto / non vedere – poco importa –“, “quel parlare solo con i cani”. Di colpo il venir meno della convivenza con gli altri, addirittura l’essere esclusi, spostati “a lato” da una narrazione ragionata del presente che altri fanno, ma in cui si dà l’unico modo per esserci: “è la storia che ci tiene vivi, a lato / dieci centimetri di ponte”, che è lo spessore del muro delle case; dentro cui l’isolamento, la solitudine che scarnifica anche l’io: “il volto muore da solo”, non tanto per la mascherina, ma per un’identità non più confermata dallo sguardo dell’altro. Le reazioni sono di grande impotenza: “tu che mormori / il vuoto non esiste rampicando solitudine”, che ripeti come un mantra “un germoglio / è questa solitudine”, mentre vai “disertando sabbia alla clessidra”, in realtà ti accorgi che si accampa un altro male devastante: “-sempreverde / il ramo dell’indifferenza”, vero “diluvio quotidiano”, tanto che si devono accogliere “gli inciampi” come “doni / a piene mani”. E poi il grande dramma di coloro che vengono meno, spariscono di colpo , una devastazione nella già “spina dei giorni devastati”, appaiata alla morte vegetale per la terribile siccità. Pensare, vivere quelle morti solitarie: “immagino come un’isola / l’ultima carezza sotto le dita mentre / è solo il vuoto che le graffia” e dirsi che bisogna imparare, abituarsi “alla voce del verbo perdere”. E’ forse possibile intravedere uno spiraglio in un’assurda contiguità tra camera mortuaria e camera di un vecchio isolato che compie gli anni, in una casaprotetta: mentre “il trapano” sigilla, ‘spegne’ “la bara”, la voce di una ragazza, che “per procura” soffia, “fuori dai vetri” che isolano il vecchio, su “novantadue candeline”, dice: “Bab, a t’fasè j’avguri”. Alla fine, dice la poeta, è la più vitale “liturgia per andare in pace”. Nella seconda sezione, Istantanee, si è fuori dalle mura di casa, ma dentro una ben più solida chiusura, quella dell’incomunicabilità. E’ un carosello di schizzi incrociati in giro, ma di quegli schizzi che con pochissimi tratti definiscono l’essenziale irripetibile. C’è subito, quasi a segno emblematico, l’assurdo paradosso per cui, volendo accedere alla “Charity” pubblica, ai barboni senzatetto viene fatto l’obbligo di fornire un indirizzo. Quindi è schizzata l’indifferenza di fondo nei rapporti apparentemente amicali; l’incomprensione reciproca dei bisogni, dei diritti degli altri; l’incomunicabilità fra culture e modi di essere vivi, per cui “- il tempo / è ringhiarsi l’un l’altro –“; l’impazienza verso i limiti, le necessità dell’altro, umano o animale che sia, che così viene strattonato, impedito, strofinato con malagrazia da chi dovrebbe aiutarlo. L’ossessione di far presto, dal traffico (molto potente immagine qui: “ i pickup si gonfiano ai semafori”) all’uomo che “assedia ogni minuto l’orologio”, in un affollarsi di figure non solo eterogenee, ma aliene nel loro proporsi ed interporsi, perché “tutti corrono d’intorno tutti sudati corrono / come lo avessero detto alla televisione”, secondo le regole di un conformismo che tutti rende burattini tra loro estranei. Ormai, infatti, c’è l’incapacità di stare insieme, al di là di un affiancamento da “isole mute… in arcipelaghi”. Anche nelle famiglie non c’è più capacità di comunicare: tra cani, figli, mogli, non riescono a darsi più niente, ognuno con una ragionevolissima giustificazione alla propria sovversione di un comportamento prestabilito, che l’altro non capisce, però, non tollera e reprime: il cane vorrebbe stare “un po’ in pace” all’ombra, il bambino non ha più fame per finire il piatto, la madre stanca non riesce ad entusiasmarsi alla “parvenza di vacanza” in collina e vorrebbe solo dormire, il padre, apparentemente ‘padrone’, nervoso perché cassaintegrato o senza paga. Significativi due altri schizzi: quello dell’atteggiamento dei famigliari verso il “bravo ragazzo” che chissà come e perché è caduto vittima di una qualche violenza da lui perpetrata su altri; l’incapacità di definirsi in sé e da sé da parte dei tanti che esistono quasi solo come foto, pensieri, corpi postati sui social. Nella terza sezione, La paralisi del giorno, domina la paura, l’incapacità di essere e di pensare diversi, l’immobilità nel conformismo. E’ una società, la nostra, ben recintata, dove “non un’orma fuori posto”, perché “ci sbriciola più del colpo / la tana della paura”. Solo fango tra le “paludi / immortali” di solitudini, vittoriose o perdenti che siano, perché non si danno conclusioni che si distolgano dal “ribadire noi i giusti / e qualcuno sempre contro”. Allora “l’occhio spranga le persiane” e si chiude nella “risacca del sonno”, impenetrabile dal vedere e dalla responsabilità, in un mondo hobbesiano dove homo homini lupus, al punto da chiedersi se la situazione sia segno di una tragica perdita o piuttosto l’inizio di una mutazione dell’uomo. Poi qualcosa la poeta lascia tralucere: “se l’albero si converte in croce”, la “linfa” vitale, nonostante tutto, si muove, e, non certo sulla spinta del “frutto proibito della paura”, “estirpa i chiodi dalla radice”. Così come smaschera il pericolo mortale del “canto” delle sirene –conformistiche, consumistiche, egoistiche, dico io – , che non si può credere di potere ‘godere’, assecondare, semplicemente legati come Ulisse all’albero maestro, perché quell’Itaca, a ben vedere, è solo un “pretesto” che sigilla il confinamento in un Limbo amorfo e nientificante. Ma il fatto è che il nostro mondo non ha più “eroi”, che i potenti vi restano sempre e comunque a galleggiare in situazioni di potere, che un falso utilitarismo ne determina valori e bisogni. Non c’è più “contempo”, il tempo assieme è troppo “difficile”; anche il futuro è vuoto di “aspettative”, chiuso com’è “l’orizzonte … nella tela di un ragno: “il passo per troppa esitazione” affonda e “si scioglie nell’asfalto”. Infine solo nell’ultima sezione, Nonostante, giunti proprio al limite estremo, quando per sperare bisogna arrivare a credere nell’ “impossibile”, si intravede un varco. Senza rinnegare che la vita è dura, che c’è sempre un vento pericolosamente capace di abbattere, si osa che bisogna imparare a “navigare i seni verdi dell’onda” per essere vivi, a vedere negli interstizi dei rami “la bellezza della zagara”, a cogliere il “calpestio” che viola il “cono d’ombra” dove “non arriva mai nessuno”, a sentire il bruciore vitale del sole, della parola, delle cose, “fuori”, anche quando “il gelo reclama una croce” e pare inchiodare ad un’immobilità di morte, e nonostante la tragedia ambientale provocata dall’uomo, nella sua “inversione / del fine con il mezzo”. La salvezza può essere solo nell’uscita dalla separazione incomunicante, dall’omologazione distruttiva. In fondo basta poco, magari imbattersi in pieno centro bolognese in un bar dove fintissimi enormi “bastoncini di zucchero” alle pareti e “casse /di bibite colorate” offrono un appiglio, se non per salvarsi dalla realtà (“la memoria non cicatrizza così”), per decollare almeno nelle lucine della “finzione”, che, chissà, delle volte eppure “salva la vita”.
e la voce le mille voci
la fioritura della pietra
restiamo dove
non è il tempo là dove
lo spazio non è cosa
deludiamo i confini
e miele dai seni di ciliegio
diveniamo l’altro,
la stessa cosa
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