Forug nasce a Teheran, il 15 day 1313 (5 gennaio 1935) da una famiglia benestante di media borghesia. Trascorre un’infanzia felice, come ricorderà con nostalgia in molte poesie. Frequenta il liceo Kosro Kavar di Teheran, dove si iscrive al corso di pittura. Ama le lezioni di geometria, ma odia quelle di componimento, non perché non ami scrivere, ma in quanto scrive “troppo bene” per la sua insegnante che la accusa di copiare dai libri. Le piace la lezione di cucito, perché, dopo, “scrivo meglio le mie poesie”, afferma. Comincia a leggere e scrivere poesie a 13 anni, soprattutto in ghazal, la principale forma classica della lirica persiana, che tratta principalmente di amore (tema preferito di Forug), mistica, primavera e vino. Sono ancora poesie giovanili, quasi un divertimento (“specialmente quando mi stancav o di pulire la verdura”). Si sposa sedicenne con Parviz Shapur e dopo un anno nasce il suo unico figlio, Kamiar. Ma presto si accorge “che il tempo della speranza nella fedeltà dello sposo / era sprecato, sprecato” e che il matrimonio è una prigione dalle “fredde e scure sbarre”, soprattutto per l’atteggiamento dispotico della famiglia del marito che avversa duramente le sue poesie “scandalose” perché parlano liberamente dell’amore. La conseguenza non può essere che il divorzio nel 1331 (1953), la cui sentenza è atroce: non potrà più rivedere il figlio. Oltre alla sofferenza della separazione, si aggiunge la preoccupazione per il futuro giudizio di Kamiar, che solo in parte attenua con la speranza che, da adulto, potrà conoscerla “veramente” e non come l’”hanno sporcata” nella “sua purezza con infami storie”. Almeno questo si avvererà, quando Kamiar confiderà al fratello adottivo Hosein, in Inghilterra: “Ho conosciuto mia madre nelle sue poesie”. Tornata presso il padre a Teheran dopo il divorzio, ha una breve e intensa relazione con Nader Naderpur, che la segnerà in modo profondo la sua poesia. A 17 anni (1331-1953) pubblica la sua prima raccolta, Prigioniera e a 21 Il muro. Le due raccolte sorprendono il mondo letterario per la loro originalità, ma scatenano anche la reazione dei benpensanti e dei conformisti: i “miopi”, li chiama lei. Non si lascia intimorire e continua a scrivere coraggiosamente  come sente e come pensa, nonostante la contrastino fino alla disperazione. Fa un viaggio in Germania e in Italia; a Roma scrive alcune tra le poesie più appassionate e ribelli, come Il canto della bellezza e La ribellione di Dio. Nel 1336 (1957) pubblica Ribellione  che segna una raggiunta maturità poetica, anche se le successive raccolte Rinascita (1341-1963) e Crediamo all’inizio della stagione fredda (1345-1967) segnano la più compiuta pienezza. Conosce bene l’italiano, l’inglese e abbastanza il francese. Traduce Santa Giovanna, tragicommedia di Bernard Shaw sulla sorte paradossale riservata ai santi ed eroi, e Colosso di Marussi di Henry Miller, senza però trovare sbocco nella pubblicazione. Si dedica anche all’attività cinematografica e al teatro. Nel 1337 (1959) frequenta in Inghilterra un corso sul cinema e al ritorno realizza il suo primo cortometraggio, Un fuoco, girato ad Ahvaz, in collaborazione con Sahrok Golestan, in cui racconta la lotta di una squadra di uomini per spegnere l’incendio di un pozzo petrolifero, e con il quale vince il primo premio per i cortometraggi al 12° festival di Venezia. Segue poi il film sul rito della richiesta di matrimonio in Iran, a cui partecipa anche come attrice, commissionato dall’Istituto Nazionale Canadese del Cinema. Nel 1340 (1362) dirige la terza parte del bellissimo film Acqua e calore, sull’ambiente umano e industriale di Abadeh. Nello stesso anno è aiuto regista di Ebrahim Golestan nel film L’onda, il corallo, il riccio. Torna quindi in Inghilterra per perfezionarsi nell’arte cinematografica. Nella primavera del 1341 (1963) si reca nel lebbrosario di Tabriz per conoscere quella realtà. Nell’estate successiva è ancora aiuto regista di E. Golestan nel film Il mare, in cui recita anche una parte importante. Tornata nell’autunno al lebbrosario per girarvi un documentario sulle misere condizioni di vita dei lebbrosi, non si sottrae ai contatti fisici e contro ogni tabù stringe rapporti di autentica solidarietà e amicizia con queste persone derelitte che vivono da recluse in condizioni disumane. Il documentario, La casa è nera, vince il primo premio al 10° festival di Oberhausen, riconoscimento che la porterà a essere stimata a livello internazionale. Scrive quindi un soggetto per un film sulla condizione della donna in Iran, che però non riuscirà a realizzare. L’anno dopo è ancora aiuto regista di E. Golestan nel film Il mattone crudo e lo specchio; quindi seguono viaggi in Germania, Italia e Francia. Nel 1344 (1966) l’Unesco realizza un documentario su di lei, per la sua arte e la sua vicenda umana. Bernardo Bertolucci la cita poi ampiamente nel film L’età del petrolio. Partecipa al 2° festival del cinema di Pesaro nel 1345 (1967), quindi accetta di recarsi in Svizzera per realizzare un film. Ma il 13 febbraio 1967 viene stroncata da un incidente stradale. Nello stesso anno in Inghilterra, Svezia, Francia, Germania viene chiesta l’autorizzazione a tradurre e pubblicare le sue opere.

“La poesia nasce dalla vita, tutto ciò che è bello e tutto ciò che riesce a crescere è il risultato della vita”. Sono parole di Forug. Tutta la sua vita è dedicata alla poesia. “Non si deve sfuggire alla vita o negarla, si deve sperimentarla, anche nei momenti più brutti e dolorosi … Ogni artista deve essere in contatto con la vita. Diversamente di cosa si può nutrire?”. La poesia per lei è “ una compagna che mi completa, mi soddisfa. Senza farmi soffrire.”. Una compagna senza rivali. “Il rapporto tra due esseri umani non può mai essere completo o diventare tale”, ma se ciò potesse accadere “ non potrebbe essere definito la più grande poesia del mondo e della vita?”. La poesia per lei è come una finestra “che ogni volta che le vado incontro si apre automaticamente, mi siedo, guardo, canto, grido, mi confondo con l’immagine degli alberi e so che dall’altra parte c’è uno spazio e una persona che acolta…”

La poesia per Forug non è solo un modo di parlare e di ascoltarsi ma, come ogni arte, è anche “una di quelle necessità inconsce che consentono di resistere al disfacimento”, l’unico mezzo, cioè, per sopravvivere a se stessi, scavalcare i confini della propria esistenza. Non c’è, altrimenti, alcuna difesa contro la morte: “la morte è una delle leggi della natura e l’uomo si sente piccolo di fronte a questa legge; è qualcosa contro cui non può far nulla. Ed è giusto che sia così”.

Essere veri poeti significa non tradire mai se stessi, ma vivere coerentemente la propria natura. Forug ne è  convinta: “Poeta significa essere un essere umano” e quindi non ci si può comportare come quelle “persone che nella vita quotidiana non hanno alcun rapporto con la poesia, cioè sono dei poeti solo quando scrivono poesie, poi tutto finisce e tornano ad essere persone bramose, golose, tiranne, chiuse di mente, misere, gelose e infime”.

Con la poesia Forug si conquista una nuova vita. La poesia è l’unica risposta che è in grado di dare a questa vita; una risposta che trascende i limiti della singola esistenza in un tutto che va al di là dello spazio e del tempo. Forug si è formata da sola, intellettualmente e spiritualmente: non ha avuto maestri che l’abbiano istruita. Il suo impegno più che alla letteratura classica, persiana e occidentale, è rivolto a capire il mondo che la circonda e quello che sente dentro di sé. Pubblica il suo primo volume, “Prigioniera”, nel 1953. Non è ancora matura come poetessa: la poesia non è ancora entrata a far parte di lei compiutamente, è soltanto un’amante appassionata. Accanto al lamento per la delusione e il soffocamento del matrimonio (“ahimé quest’anello che in fronte ancora mantiene / ardore e splendore / è l’anello del giogo e delle catene”) e al desiderio di liberarsi da questa prigionia (“penso che per un attimo di distrazione / da questa muta prigione volerò / … ho in testa quest’idea ma so che mai / da questa gabbia avrò la forza di andare”) c’è un’ansia struggente d’amore: “lui non è qui ad abbandonarsi tra le mie braccia respirando / pazzamente il profumo dolce del mio corpo “.

La poesia comincia a radicarsi più profondamente in lei con la conoscenza di altri poeti: Naderpur, Sayè, Sales, Shamlù, tutti appartenenti alla prima generazione dei poeti persiani contemporanei. Shamlù è quello che la colpisce maggiormente per la semplicità del suo linguaggio. Con lui si rende consapevole delle ampie possibilità espressive che offre la lingua persiana, anche senza far ricorso a ricercatezze di termini, ornamento irrinunciabile della poesia classica. Successivamente incontra un altro grande: Nima Yusig, il fondatore riconosciuto della poesia persiana contemporanea. Pur nella diversità di temperamento, ne subisce l’influenza in modo determinante. Ma ciò che la colpisce più profondamente di lui è la sua grande umanità: “senza umanità non si può essere veri poeti, lui mi ha aperto gli occhi e io ho guardato”.

Sul piano formale Forug persegue l’obiettivo di andare oltre le convenzioni poetiche, sia nel linguaggio che nella metrica.

“In questo campo”, afferma, “posso dire soltanto che sono giunta all’intimità e alla semplicità… Ho guardato alla realtà che mi circonda, agli oggetti che mi stanno intorno e ai tratti fondamentali di questo mondo; l’ho scoperto e quando ho voluto esprimerlo mi sono accorta che avevo bisogno di parole, parole nuove che fossero legate al mondo stesso. Ho scoperto queste parole e sono entrata senza paura… Cosa m’importava se finora nessun poeta aveva usato ad esempio il termine ‘esplosione’. Io dalla mattina alla sera vedo qualcosa che esplode. Quando scrivo una poesia non potrei tradire me stessa… Il punto di partenza è il contenuto… se il contenuto è completo, il problema della musicalità e del linguaggio si risolve da sé.”

Nel 1958 pubblica “Il muro” e nel 1960 “La ribellione”. E’ il periodo in cui si batte con più forza per conquistare  la propria libertà e autonomia: “ho cercato di essere coraggiosa e non ho avuto paura e ho trovato le parole”. Parole nuove, avulse dalla letteratura classica, troppo raffinata: “ non erano poetiche e io le ho rese tali”. Nel “Muro” c’è la consapevolezza che anche nell’amore non è possibile superare certe barriere (“nel passaggio rapido dei freddi momenti / i tuoi occhi selvaggi nel loro silenzio / intorno a me costruiscono il muro”) e che la vera strada della libertà è quella della solitudine (“fuggo da te in lontananza per aprire / il sentiero della città dei desideri”). In “Ribellione” Forug lotta contro il perbenismo e l’ipocrisia della società (“qui sta seduto per ogni sentiero / il demone della bugia, dell’onta, dell’ipocrisia / … lasciai me stessa per levare il velo / dal volto puro delle sante Marie”) e contro chi, dal cerchio ristretto del bigottismo religioso, scaglia censure e anatemi  (“con questo gruppo di santoni illusi / so che non è facile questa contesa”). La sua ribellione si rivolge anche, simbolicamente, contro Dio, per aver creato il male (“creasti tu satana maledetto / ribelle lo rendesti e lo spingesti a noi / … hai permesso tu che finché esiste il mondo /  con le sue infauste mani semini discordia”) e le tentazioni che inducono l’uomo al peccato (“senza pietà donasti tutto ciò che è bello / lo lasciasti sulla via di chi ama la bellezza / poi hai riempito la nostra volta celeste / dei tuoi gridi di rabbia e del tuo furore”); e per l’ipocrisia di condannare come peccato ciò che è premio in paradiso (“quel peccato amaro e bruciante che nel suo sentiero / la nostra anima riempiva di desiderio e di ardore / nel tuo paradiso ad un tratto prende un altro uomo / nel tuo paradiso, o gran Dio, diventa ricompensa”). E’ il libro che suscita maggiore scalpore, sia tra i critici che nell’ortodossia religiosa.

Nel 1963 pubblica “Rinascita”, l’opera con cui raggiunge la pienezza del proprio linguaggio. Ma non si sente ancora soddisfatta. Forug è molto severa con se stessa: “Quando guardo “Rinascita” resto male perché dico: questo è il risultato, è così poco”.

Forug ha 30 anni ormai e come donna si sente al massimo della maturità. Ma, volgendosi indietro, ritiene che la qualità della sua poesia sia molto più giovane di lei, non ancora matura come vorrebbe. “La mia mente era ancora confusa”, dice, “e vivevo momento per momento”. La poesia in cui crede di più è sempre l’ultima, senza però esserne mai soddisfatta pienamente. E’, però, il pessimismo di chi vuole andare oltre, di chi ha bisogno di continuare a cercare: “Ho divorziato anche da “Rinascita”, ma con l’ultimo pezzo si può costruire un’altra poesia e ripartire da capo”.

Il periodo della ribellione è già trascorso e con esso i giorni dell’innamoramento e della passione. Adesso è una donna sola (“quei giorni sono passati / quei giorni come i legumi che seccano al sole / rinsecchiti sotto i raggi del sole / e quelle strade intrise del profumo dei glicini / si sono perse nel tumulto delle strade senza ritorno / e quella ragazza che colorava le guance coi petali dei gerani, oh / ora è una donna sola / ora è una donna sola oltre ‘quei giorni’”).

La sua solitudine è grande. Nessuno, tranne quei pochissimi testimoni che le stanno vicino, sa dei suoi pianti, della sua angoscia, o di quando è malata, anche in modo grave, e non ha il denaro per curarsi. Quel poco che ha è destinato al figlio adottivo o ai poveri. Spesso si chiude in casa per giorni interi. Pensa e scrive. Non solo poesie, ma anche lettere ai fratelli e alle sorelle nelle quali parla della sua vita e spesso piange il suo abbandono: “e questa sono io / una donna sola”.

Con la poesia “Crediamo all’inizio della stagione fredda”, che dà il titolo al suo ultimo libro pubblicato dopo la morte, Forug entra in una fase nuova. Il suo sguardo si fa più penetrante nei confronti della società che la circonda. I sogni d’amore si sono perduti nelle strade dell’innocenza: “cadono e muoiono dall’alto della loro ingenuità”, afferma.

La poesia “Sono addolorata per il giardino” è un nitido affresco dell’evolversi della società iraniana: le fucilazioni (“le piccole ingenue stelle / cadono a terra all’altezza degli alberi”), i prigionieri politici (“e dietro le finestre sbiadite delle case dei pesci / si sente tossire di notte”) e il progressivo stratificarsi della società che “si è gonfiata al sole”. Il padre rappresenta la generazione trascorsa, stanca e rassegnata. La madre è il simbolo di tutte le madri iraniane che si lacerano nell’angoscia e nella paura per il futuro senza protezione dei figli. Madri che, segnate dalle ingiustizie, passano la vita sull’inginocchiatoio “sulla soglia spaurita dell’inferno… in attesa della rivelazione / e della concessione del perdono”. Il fratello, demotivato e disperato, il cui unico rifugio è “drogarsi di filosofia”, raffigura la generazione oppressa, che ha subito la sconfitta passivamente. La sorella è l’immagine della donna medio borghese, cresciuta nella nuova generazione, che vive “nella sua casa artificiale… sotto l’amore del marito artificiale”. E i vicini “nei loro giardini al posto dei fiori / seminano granate e mitragliatrici”, e i bambini perdono la loro innocenza riempiendo “di piccole bombe / le cartelle di scuola”.

In queste immagini semplici c’è il cammino della storia. Così, dalla tensione di “Rinascita”, Forug entra in uno spazio nuovo, in un mondo di più alti valori. Con un’idealità che si enfatizza nella necessità di svegliarsi dal sogno, di conoscere la realtà e combattere le ingiustizie e le disuguaglianze sociali.

Forug parla del sogno dei lavoratori, dei contadini che vengono in città e vivono in periferia; parla di questa classe sociale che non è ancora una classe. E vede i ragazzi degli anni ’60 che si stanno liberando dall’indifferenza e dalla disperazione che li aveva allontanati da ogni illusione.

Così la disperazione fa posto a una nuova speranza: “verrà qualcuno che non assomiglia a nessuno, / qualcuno che al suo arrivo non potrà essere ammanettato e scaraventato in prigione / qualcuno che verrà dal tumulto della piazza d’armi”. Purtroppo Forug non ha il tempo di completare questo nuovo cammino, il destino è in agguato: il 13 febbraio del 1967 perisce tragicamente in un incidente stradale.

Due giorni dopo, al momento della sepoltura, nevica. L’immagine evocata nelle sue poesie si fa realtà: “forse la verità erano quelle due giovani mani / quelle due giovani mani / che sotto il continuo fioccare della neve sono state sepolte”; “Un giorno arriverà la mia morte… per calarmi sottoterra verranno… il mio corpo avvinghiato dalla terra… Poi il vento e la pioggia laveranno / il mio nome dalla pietra dolcemente / la mia tomba sconosciuta sulla via / scevra da buona o cattiva leggenda”.

La poesia di Forug era il suo destino. La poesia è un cerchio vuoto che il poeta riempie con la sua esistenza e Forug ha riempito lo spazio della sua poesia con se stessa. Nella forma più alta, quella in cui non esiste più il poeta, ma soltanto la sua poesia.

L’unione con la Natura e il Creato è la chiave per comprendere la poesia di Forug. Forug si sente legata appassionatamente alla terra, percepisce il suo corpo come parte intima del Creato. La sua vita è dedicata ad esso, a tutte le persone e a tutte le cose: vuole appendere il suo cuore come frutto maturo a tutti i rami degli alberi.

“Dalla terra sempre esce una forza che mi attrae, non m’importa di salire o andare avanti, desidero solamente sprofondare. Desidero sprofondare assieme a tutte le cose che amo in una totaltà immodificabile. Mi sembra che l’unica via per sfuggire all’annientamenti, per non essere perduti, diventare nulla, sia questa”.                 

Il punto da cui muove Forug sono le barriere e i tabù della società contro cui si scaglia con tutte le sue forze, smascherando i meccanismi repressivi e affermando la sua verità, che è quella universale della natura. Per Forug il compito del poeta è quello di aiutare l’uomo sulla via di una nuova autocomprensione, della sua crescita, della sua maturazione. Il dolore, la sofferenza di Forug simboleggiano lo stato d’animo di tutti gli intellettuali che, dopo la rivoluzione industriale, si trovano sommersi da una realtà che distrugge i valori. Lei, con le sue poesie, cerca di resistere a questo annientamento. In tutti i suoi componimenti c’è il pericolo del crollo dei valori. Denuncia che si può essere felici solamente se si è “come le bambole a carica / vedere il mondo con occhi di vetro”. Ma lei vede che non le appartiene niente (“la mia parte / è un cielo che una tenda appesa mi cancella”). E’ anche da qui che ha origine il suo amore per la terra, nutrice e sacello, che dà la vita e abbraccia dopo la morte: “Oggi è il primo giorno d’inverno / conosco il segreto delle stagioni / comprendo il linguaggio che avvolge / è un invito alla quiete”.

Forug parla liberamente dell’amore fisico con un’intensità e una freschezza avvincenti (“accanto a un corpo tremante d’ebbrezza / ho commesso un peccato delizioso / dio mio cos’ho fatto / in quell’angolo buio e silenzioso / … il mio corpo nel morbido giaciglio / con ebbrezza sul suo petto tremò”). Per la prima volta una poetessa parla della “veracità del nostro corpo, dello splendore della nostra nudità”. Ciò urta violentemente contro il rigido moralismo della società e contro una tradizione mistificatrice che aveva reso il piacere stesso un tabù. “Sono venuta in questo mondo”, dice, “lontana dal mio io; mi sono vista allo specchio, che era cieco per la mia realtà”. Forug è una donna appassionata e sensuale, limpida, non contaminata da volgarità ed edonismo. L’amore di Forug non ha niente di impuro, è soprattutto la ricerca di una via di liberazione, il mezzo per allontanarsi dall’infelicità e dalla solitudine (“in quell’angolo buio e silenzioso / accanto a lui incerta mi sedetti / dalle sue labbra alle mie l’ardore / il cuore sciolto da angoscia e tristezza”. Forug è semplicemente una donna sincera, autentica, che non accetta di sottostare ai meccanismi repressivi; una donna libera che ha il coraggio di sollevare il velo dell’ipocrisia. Dice le stesse cose che pensano tutti, e se lei commette il peccato di dire ciò che pensa, gli ipocriti, pensando le stesse cose, ne aggiungono uno più grave: quello di nascondersi dietro la falsa morale.

Il fatto di essere donna la rende doppiamente trasgressiva perché mette in discussione, oltre la morale, anche il sistema repressivo nei confronti della donna. La genuinità e la limpidezza della passione e della “pazzia” di Forug ne fanno la poetessa più amata dalle adolescenti del suo paese che scoprono in lei il proprio alter ego, la materializzazione dei loro sogni e dei loro desideri.

Forug si difende dai pregiudizi con grande lucidità e fermezza.

“Se la mia poesia ha un’impronta femminile, chiaro, è perché sono una donna, per fortuna che sono una donna… Ma se vogliamo discutere di valori artistici, devo dire che il sesso non c’entra e mettere in discussione questo aspetto non è giusto. Ciò che si deve discutere è che l’uomo deve accrescere i lati positivi della sua esistenza in modo da poter giungere a un certo livello dei valori umani; ciò che è fondamentale è l’essere umano, non importa se donna o uomo. Se una poesia riesce a raggiungere quel punto, non c’entra più il suo autore, ma si collega al mondo della poesia”

“nella terra degli omuncoli / le misure di giudizio / sono rivolte sempre all’orbita dello zero. / Perché fermarmi? / Io obbedisco ai quattro elementi / ed il compimento della stesura del codice del mio cuore / non riguarda il dominio circoscritto dei ciechi. / Che m’interessa del lungo ululato selvatico / della membrana genitale dell’animale? / Che m’interessa del misero moto del verme nel vuoto della carne? / Mi ha impegnata a vivere la sanguinosa stirpe dei fiori / la sanguinosa stirpe dei fiori, lo sapete?”

Forug è sicuramente una delle più grandi poetesse del nostro tempo. Una figura esemplare per l’assoluta limpidezza, coerenza, umanità che contraddistinguono la sua vita e le sue opere. Molti poeti le hanno reso omaggio con le loro poesie. Tra questi Shamlù e Seperhi, coi quali aveva coltivato sincera amicizia. Scrive Shamlù:

“Cercandoti / piango al passaggio dei venti, / al crocevia delle stagioni, / nell’infranta cornice di una finestra / che inquadra / il cielo nuvoloso in una vecchia cornice / … il tuo nome è un’alba che scorre sulla fronte del cielo. / Sia benedetto il tuo nome!” Elegia

E Sepehri:

“Fu grande / e apparteneva alla gente di adesso / e aveva affinità con tutti gli orizzonti spaziosi / e come comprendeva bene la melodia dell’acqua e della terra … ma non ha potuto / sedersi davanti al candore delle colombe / e camminò fino alla soglia del nulla / e si sdraiò dietro la costanza delle luci / e non pensò affatto / che noi tra il turbamento dello schiudersi delle porte / per mangiare una mela / quanto soli siamo rimasti” Amica

CREDIAMO ALL’INIZIO DELLA STAGIONE FREDDA
traduzione di Mojgan Heidari versificazione di Luciano Prandini

E questa sono io
una donna sola
alla soglia di una stagione fredda,
all’inizio della comprensione dell’infetta esistenza della terra,
e della semplice, triste disperazione del cielo
e della debolezza di queste mani di cemento.

Il tempo se n’è andato.
Il tempo se n’è andato e l’orologio ha battuto quattro volte,
quattro volte ha battuto.
Oggi è il primo giorno d’inverno.
Conosco il segreto delle stagioni
e comprendo il linguaggio degli istanti.
Il salvatore dorme nella tomba
e la terra, la terra accogliente
è un segno di quiete.

Il tempo se n’è andato e l’orologio ha battuto quattro volte.

Nel vicolo soffia il vento.
Nel vicolo soffia il vento.

E io penso all’accoppiamento dei fiori,
ai boccioli dagli steli esili e anemici
e a questo tempo stanco e tubercolotico.
E un uomo passa accanto agli alberi bagnati,
un uomo con le corde azzurre delle vene,
serpenti morti ai lati della gola,
strisciati all’insù,
che ripetono nelle tempie stravolte
quella satira sanguinosa:
-Salve.
-Salve.
E io penso all’accoppiamento dei fiori.

Alla soglia di una stagione fredda,
nella celebrazione del lutto degli specchi
e nella funerea società delle scialbe esperienze,
e in questo tramonto fecondato dalla scienza del silenzio,
come si può comandare di fermarsi
a chi va così
paziente,
pesante,
confuso.
Come si può dire all’uomo che non è vivo, che mai è stato vivo.

Nel vicolo soffia il vento.
I corvi solitari della solitudine
si aggirano nei vecchi giardini della noia.
E la scala
che misera altezza possiede.

Loro si sono portati al castello delle favole
tutta l’ingenuità di un cuore.
E ora poi,
in che modo una persona si alzerà a danzare,
in che modo scioglierà i capelli dell’infanzia
nelle acque correnti
e schiaccerà sotto i piedi la
mela infine raccolta e odorata?

Amico mio, mio unico amico,
quante nuvole nere attendono il giorno della festa del sole.
Pare che sia stato in un percorso dell’immagine del volo
che apparve un giorno quell’uccello.
Pare che si siano formate delle linee verdi dell’immaginazione
quelle foglie fresche che ansimavano nella sensualità della brezza.
Pare
che quella fiamma viola che ardeva nella mente pura delle finestre
non fosse altro che l’immagine innocente della lampada.

Nel vicolo soffia il vento,
è l’inizio del crollo.
Anche quel giorno in cui caddero le tue mani soffiava il vento.

Care stelle,
care stelle di carta,
quando nel cielo soffia la bugia
come ci si può rifugiare nei salmi dei ritrosi messaggeri?
Noi ci incontriamo come i morti millenari e poi
il sole giudicherà la corruzione dei nostri cadaveri.

Ho freddo.
Ho freddo e pare che non mi scalderò mai.
Amico mio, mio unico amico “quanti anni aveva quel vino?”
Guarda qui
come pesa il tempo
e come i pesci masticano le mie carni.
Perché mi tieni sempre in fondo al mare?

Ho freddo e odio gli orecchini di conchiglia.
Ho freddo e so
che di tutte le purpuree allucinazioni di un papavero selvatico
nient’altro resterà
che qualche goccia di sangue.
Abbandonerò le linee
e cesserò anche di contare i numeri,
e tra le limitate forme geometriche
mi rifugerò nelle ampiezze palpabili della dimensione.
Io sono nuda, nuda, nuda.
Nuda come i silenzi tra le parole affettuose.
E le mie ferite sono tutte d’amore,
amore, amore, amore.
Ho fatto attraversare
quest’isola smarrita
il ribollìo dell’oceano e l’esplosione della montagna.
E a frantumarsi era il segreto di quel corpo integro
le cui più misere particelle generarono il sole.

Salve, notte innocente.
Salve notte che trasformi gli occhi dei lupi del deserto,
delle cavità ossee della fede e della certezza.
E le anime dei salici lungo i tuoi ruscelli
annusano le anime gentili delle asce.
Io vengo dal mondo dell’apatia dei pensieri., delle parole e delle voci
e questo mondo somiglia al nido dei serpenti,
e questo mondo è zeppo del calpestio degli uomini
che mentre ti baciano
intrecciano mentalmente la corda della tua forca.
Salve, notte innocente.

Tra la finestra e ciò che scorge
c’è sempre una distanza.
Perché non ho guardato?
Come quando un uomo rasentava gli alberi bagnati…

Perché non ho guardato?
Credo che mia madre piangesse quella notte,
quella notte in cui diventai la sposa dei grappoli di glicine,
quella notte in cui Isfahan era colma del tintinnio delle piastrelle azzurre.

E quella persona che fu la mia metà
era tornato nel mio embrione.
E io lo vedevo nello specchio:
come lo specchio era lindo e luminoso.
E di colpo mi chiamò
e io divenni la sposa dei grappoli di glicine…

Credo che mia madre pianse quella notte.
Che vana luce fiammeggiò in questo sportello chiuso.
Perché non ho guardato?
Tutti gli attimi della felicità sapevano
che le tue mani sarebbero crollate.
E io non ho guardato
fin quando lo sportello dell’orologio
si è aperto e quel canarino triste ha battuto quattro volte.
Quattro volte ha battuto
e io ho incontrato quella donna minuta dagli occhi
come i nidi vuoti dei Simorgh e mentre andava
sembrava recasse nel moto delle cosce
la verginità del mio sogno grandioso
verso il giaciglio della notte.

Pettinerò un’altra volta
i miei capelli al vento?
Pianterò un’altra volta le viole nei giardini?
E metterò i gerani
nel cielo dietro la finestra?
E danzerò di nuovo sui bicchieri?
E lo scampanellio della porta mi porterà ancora in attesa della voce?

Dissi a mia madre: “ormai è finita”.
Dissi: “succede sempre prima di pensarci,
dobbiamo spedire un necrologio al giornale”.
L’uomo vuoto,
l’uomo vuoto pieno di fiducia:
guarda i suoi denti
come cantano biascicando.
E i suoi occhi
fissi divorano.
E in che modo passa accantp agli alberi bagnati,
paziente,
pesante,
smarrito.

Alle quattro,
quando le corde azzurre delle sue vene,
serpenti morti ai lati della gola
strisciano all’insù,
nelle sue tempie sconvolte ripetono
quella satira sanguinosa:
-Salve.
-Salve.
Tu
hai mai odorato
quei quattro tulipani azzurri?…

Il tempo se n’è andato,
il tempo se n’è andato e la notte è precipitata sui rami nudi dei glicini,
la notte scivola oltre i vetri della finestra
e con la sua lingua fredda
cattura gli avanzi del giorno trascorso.

Io da dove vengo?
Io da dove vengo?
Io, così intrisa dell’odore della notte.
La terra è ancora fresca della sua tomba.
To parlando della tomba di quelle due giovani mani…

Come eri gentile, amico, mio ineguagliabile amico.
Come eri gentile quando dicevi le bugie,
come eri gentile quando abbassavi le palpebre degli specchi
e avvolgevi i lampadari
con gli steli dei fili
e nel buio crudele mi conducevi al prato dell’amore,
finché il nebbioso stordimento dell’arsura riposava sugli steli del sonno.
E quelle stelle di carta
vorticavano attorno all’infinito.
Perché hanno dato le parole alla voce?
Perché hanno volto lo sguardo alla dimora dell’incendio?
Perché hanno accarezzato
i bei capelli pudichi della verginità?
Guarda qui
come l’anima di chi parlò con le parole
e cantò con lo sguardo,
e con la carezza si riposò dalla fuga,
fu crocifisso
ai pali del sospetto.
E come l’impronta dei cinque rami delle tue dita,
che furono le cinque lettere della verità,
è rimasta sulla mia guancia.

Cos’è il silenzio, cos’è, cos’è, mio unico amico?
Cos’è il silenzio fuorché le parole non dette.
Io mi trattengo dal dire, ma il linguaggio dei passeri
è quello della vita, delle frasi che scorrono, della natura.
Il linguaggio dei passeri è primavera, foglia, primavera.
Il linguaggio dei passeri è brezza, profumo, brezza.
Il linguaggio dei passeri in fabbrica muore.

Chi è costui, questa persona che sul sentiero dell’eternità
va verso l’istante esclusivo.
E il suo orologio di sempre si accorda
con la matematica ragione delle sottrazioni e delle divisioni.
Chi è costui, questa persona che non considera
il canto dei galli l’avvio del cuore del giorno,
ma l’odore della colazione?
Chi è questa persona che ha sulla testa la corona d’amore
e dentro gli abiti nuziali è putrido?

Infine, dunque, il sole
non illuminò insieme
due poli disperati.
Tu ti sei svuotato dal tintinnio delle piastrelle azzurre.

E io sono così gonfia che pregano sulla mia voce…

Cadaveri fortunati,
cadaveri annoiati,
cadaveri silenziosi, pensierosi,
cadaveri affabili, eleganti, buongustai
nelle fermate a orario fisso
e nel campo ambiguo delle luci precarie.
E la voglia di comprare i frutti marci dell’inutilità…
Ah,
quanta gente ai crocevia si preoccupa degli eventi.
E questi fischi dell’Alt
quando un uomo deve, deve, deve
essere schiacciato dalle ruote del tempo.
Un uomo che passa accanto agli alberi bagnati…

Io da dove vengo?
Dissi a mia madre: “è finita ormai”.
Le dissi: “accade sempre prima di pensarci,
dobbiamo spedire un necrologio al giornale”.

Salve stranezza della solitudine,
ti rendo la tua stanza
perché le nuvole scure sono sempre messaggere
dei freschi salmi della purezza
e nel martirio di una candela
c’è un luminoso segreto,
ben conosciuto da quell’ultima più esile fiamma.
Crediamo!
Crediamo all’inizio della stagione fredda!
Crediamo alle rovine dei giardini della fantasia,
alle falci capovolte, disoccupate,
e ai semi prigionieri.
Guarda quanta neve cade…

Forse la verità erano quelle due giovani mani, quelle due giovani mani
sepolte sotto l’incessante nevicare.
E l’anno venturo, quando la primavera
si accoppierà col cielo dietro la finestra
e nel suo corpo sprizzeranno
i verdi zampilli degli steli spensierati,
fioriranno amico mio, mio unico amico.

Crediamo all’inizio della stagione fredda…

Questo testo, con minime varianti, riprende l’introduzione, la biografia ed un testo poetico della pubblicazione del 2006, per i tipi di Editoriale Sornetti di Mantova, nel 2006: Forug Farrokzad, Crediamo all’inizio della stagione fredda, a cura di Mojgan Heidari e Luciano Prandini, nella collana Archivio della poesia del ‘900, diretta da Alberto Cappi e Eugenio Miccini, col patrocinio del Comune di Mantova.

Cinema

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