
Quale cultura è stata nei secoli la più provocatoria dal punto di vista intellettuale? Indubbiamente quella greca: col suo culto della “sofìa”, cioè della conoscenza, al punto tale che a Delfi, sul frontone del tempio del dio della sapienza Apollo, avevano iscritto a grandi caratteri la massima (provocazione al genere umano d’ogni tempo): «Ghnòthi sautòn», «Conosci te stesso». Erano ben sicuri che la sfida sarebbe stata persa da tutte le generazioni successive. Perché? Perché avevano messo a fuoco, per la prima volta nella storia dell’umanità, che tentare di conoscersi era tanto necessario, quanto impossibile. Era una via senza fondo, in quanto scavare in se stessi, anche rimossi i livelli superficiali di non conoscenza, incontrava poi le dure concrezioni degli errori condivisi da tutti o, peggio, di quelli pure inconsci. I greci avevano capito che a credere di conoscere se stesso era solo chi rinunciava a progredire nello scavo, illudendosi d’avere raggiunto chissà quale profondità.
Di questa provocatorietà e superiorità intellettuale dei greci erano ben consapevoli i romani anche dopo averli assoggettati, al punto da scriverne con Orazio: «La Grecia sottomessa ha sottomesso il suo selvaggio vincitore» cioè Roma (… e, detto per inciso, in quest’ammissione d’inferiorità stava forse la grandezza, culturalmente sincretica e “inclusiva” – si direbbe oggi – di Roma stessa).
Certo, i greci erano anche sicuri che la sfida sarebbe stata raccolta. E infatti quanti provocati/provocatori in due millenni e mezzo si sarebbero cimentati col «Gnòthi sautòn» e avrebbero portato contributi di grandi menti all’impossibile autoconoscenza del sé. Ma non avrebbero toccato la meta, attraverso la teologia, neppure Agostino d’Ippona, Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri; non, col culto della follia misterico-apocalittica, Ariosto, Cervantes; non, con gli scandagli negli anditi tenebrosi del cuore, Marlowe, Shakespeare, Webster, Dostojevski, Conrad; non, con le loro fulminanti acquisizioni gnomiche, Montaigne, Pascal, La Rochefoucauld, Voltaire, Goethe, Chateaubriand; non, con trascinanti seduzioni narrative verso il sé-eterno/onnipresente in ogni creatura umana, Stendhal o Tolstoj; non, col richiamo alla solidarietà tra esseri umani, il Leopardi della Ginestra o Boell; non, col suo appello d’indignazione civile, rivolto a coloro che sarebbero nati poi, Brecht; e neppure avrebbe toccato la meta, agli albori del XX secolo, con la psicanalisi, Freud o Jung, col loro immenso tributo alla scienza e col loro portato poetico-narrativo rovesciato in Eliot, in Joyce, in Rilke, in tutta la produzione letteraria successiva; psicanalisti che avrebbero anzi messo a fuoco la impossibilità di conoscersi, se non per brani estratti dall’inconscio.
E a questo punto bisogna chiedere perdono a chi sta leggendo questo pezzo, per la lunga premessa di cui sopra. L’abbiamo presa alla lontana, partendo dai greci, per un amoroso excursus tra i provocatori e i provocati di ogni tempo. Perché questa premessa serve a parlare di un libro.
* * *
Ci sono infatti libri che, dalla prima all’ultima pagina e sotto un profilo particolarissimo, riprendono il tema e sollevano, anche richiamandole espressamente, queste evocazioni; libri “nudi” e sinceri in quanto, appena aperti, mettono di fronte allo spaccato di una vita. Di due vite, anzi, quando due sono gli autori (Matteo Girardi, runner, editor, scrittore e Alberto Rossetti, runner, psicoterapeuta e saggista) come avviene in Essere un runner in qualche modo. Sul perché correre fa bene ma può anche farti male, edito a fine 2024 da Città Nuova (pp. 158, € 16,90).
Qualcuno a prima vista obietterà: parliamo di un libro sulla corsa, sul running, sulle maratone, dopo sant’Agostino, san Tommaso e san Francesco? E la risposta è sì. Perché in un libro sulla corsa c’è, con pudore e modestia, criptata la segnalazione di una strada tutta fisica, tutta sportiva, tutta moderna per accedere (non alla conoscenza, bensì) alla minor ignoranza sul “sé”. Essere un runner in qualche modo di Girardi e Rossetti è infatti un testo di gnoseologia, a metà tra il romanzo e il saggio, che con molto divertimento corre e scorre dalla prima all’ultima pagina con ai piedi le scarpe da ginnastica.
Si tratta di un racconto epistolare, in quanto i due autori si scambiano e-mail sulla loro introspezione fatta mentre corrono (loro comune passione praticata da Girardi a Roma, da Rossetti a Torino) fino al punto da non poterne più far a meno, anche a costo ch’essa arrivi qualche volta, a “far male”. Ci sono autoironia e divertissement in questo racconto di “pezzi di due vite” … tutte di corsa. Gli autori lo fanno senza presupponenza, senza didascalismo – ancorché suggestive siano le digressioni del runner Girardi e profonde le analisi psicologiche di Rossetti. I due amici si rubano l’un l’altro spunti di queste tecnicalità, come se stessero parlando al bar, mantenendo un registro di comunicazione basso nel ripercorrere ad esempio i loro esordi o, col tempo, le maratone europee alle quali hanno partecipato. Parlano della gioiosa rispondenza del corpo sperimentata in esse, o viceversa dell’inatteso dolore o infortunio che li ha costretti a ritirarsi dopo settimane di allenamento; con lo sconforto del podista che crolla in un taxi da cui deve farsi riportare indietro, distogliendo lo sguardo dagli altri che, al di là del finestrino, continuano a correre felici. Si confessano soddisfazioni e sconfitte. Mettono a fuoco devozioni e scaramanzie dei runner, analizzandone anche le dipendenze e i problemi che tanto un’incontrollata pratica, quanto una forzata astinenza possono provocare.
Divertente in tal senso è il racconto, da parte di Matteo Girardi (nel capitolo «Cosa mi porto addosso») delle idiosincrasie nonché della semi-dissociazione di personalità affrontata, con dipendenza dalla tv, durante un periodo di forzata lontananza dal running imposto da un infortunio: «Di quel periodo, la cosa che ricordo meglio è che avevo ripreso svegliarmi più tardi la mattina e la sera, di conseguenza, non avevo molto sonno». Così si mette a cercare una serie in tv e comincia a seguire Breaking Bad… non consapevole che la dipendenza provocata dalla corsa può trasferirsi tranquillamente sul versante opposto. «Mi ricordo una sera che mi sono messo davanti alla televisione alle nove e mezza e poi a un certo punto ho fatto una pausa per andare in bagno, ho guardato l’orologio, erano le quattro del mattino». Aver realizzato questo gli è utile. Lo porta a conoscersi un po’ di più: mette a fuoco in se stesso… due Mattei, quello di prima «che si sveglia alle cinque per andare a correre e accoglie tutte le storture del mondo con grande serenità ed equilibrio» e l’altro «che fa le quattro del mattino per vedere una serie tv ed è spesso nervoso, dorme poco e quando è nervoso non è disposto ad accogliere nessun punto di vita che non sia il suo».
Bel progresso, dunque, questo, verso una minor «incomprensione del sé», raggiunto attraverso lo «schermo» (…prima della corsa, poi della tv)!
E prosegue raccontando ai lettori la propria collocazione nel mondo runner: «Qualche tempo fa Sofia, mia figlia, che fa la prima media, mi ha chiesto cosa fossi io» – scrive Girardi – «Lei è un po’ che si guarda intorno e osserva e poi torna a casa e mi descrive il mondo come lo vede lei, popolato da emo, trapper, nerd, secchioni e maranza (questa è una parola che ho scoperto da poco e credo indichi un coatto, così si dice a Roma, non ancora maggiorenne) e vorrebbe capire con quale di queste culture potrebbe sentirsi a suo agio. Quando mi ha chiesto cosa sono io, voleva sapere se appartenessi o fossi mai appartenuto a qualcuna di queste culture o sottoculture. Le ho risposto che negli anni mi sono avvicinato a tante cose diverse (non ci crederai ma ho avuto anche un periodo reggae una venticinquina di anni fa), ma che ogni volta che mi sembrava di aver trovato il mio posto, mi rendevo conto che in quel posto ci stavo scomodo, o non comodo come mi sarei immaginato. Anche con la corsa è così: ci sono certe volte che vorrei essere un runner e basta, un runner puro, un runner a qualsiasi costo, poi però ci ripenso e mi dico che alla fine, forse, sono più contento se riesco a essere un runner in qualche modo» (ecco la spiegazione del titolo) cioè «un runner nonostante tutto».
Ecco la perla filosofica-iridescente secrezione indotta e coltivata ad hoc, col granello di sabbia inserito nelle carni dell’ostrica, così come con la disciplina sportiva nel corpo del runner. Ecco la pratica “gnoseologica” del running quale “diàita” o “regola di vita”, volendo restituire l’originario significato greco alla parola “dieta”.
Correre per scrollarsi di dosso tutti gli autocondizionamenti del sé. Correre per espellere dai pori le tossine dei… misconoscimenti del sé. Correre per buttarsi tutto alle spalle. Correre per provare a conoscersi senza starci a pensare. E dire ai greci: non ci provate con me, so benissimo che la sfida che avete lanciato 2500 anni fa è impossibile e comporta il rischio anche di farsi male, ma io questo rischio lo corro lo stesso. Io…corro lo stesso.
Lascia un commento