Dante Castellucci

Da molto tempo ormai non salgo più al rifugio sul lago.
La prima volta che ci andai fu con mio fratello, il maggiore di noi tre. Ero appena un ragazzino, piuttosto gracile in piena crescita. Mi appassionavo ai poemi epici e alla scherma. Lui invece, mio fratello grande, si era innamorato della cupa profondità di quel lago con le sue acque verdi e, senza dirmelo, anche di una ragazza che viveva più a valle a Corniglio e che poi sposò. Aveva già in mente allora di trasferirsi a vivere tra quelle montagne, lasciandosi dietro Milano con i suoi grattacieli e un buon impiego alla Saipem.  Quando poi ci riuscì, molto più tardi, si ammalò.
Ricordo che gli piaceva sostare in silenzio sulla riva del lago, un po’ curvo di spalle, spiando i salmerini e le trote che guizzavano d’improvviso fuori dal pelo dell’acqua, immobile, lo sguardo proteso a cercare il punto dove s’immaginava di lanciare l’esca.
Superati i cancelli al bivio per i Lagoni imboccavamo la strada in dissesto, piena di buche, che scende in mezzo agli abeti fino alla conca umida e muschiosa di Lagdei. Lì lasciavamo la macchina e salivamo per il sentiero panoramico che all’inizio, ripido e quasi intagliato a scalini, ti prende il fiato ma poi si distende in un’erta più dolce nella faggeta dove il passo si fa regolare. Mio fratello camminava più veloce di me, sempre avanti, mentre io cercavo di emulare la sua falcata elastica – da camoscio, diceva lui – che mi faceva invidia.
Negli anni sono ritornato più volte lassù. Le ultime con i miei studenti e infine insieme ai miei nipoti. Oggi il rifugio, sebbene ampliato, non è troppo diverso da come doveva apparire ottant’anni fa, in quella gelida vigilia di San Giuseppe del 1944, assediato dalla spessa crosta di ghiaccio del lago e dai militi fascisti saliti con dei soldati tedeschi, mentre dietro le sue mura di pietra, come in un fortino, si erano barricati i nove partigiani del distaccamento garibaldino “Guido Picelli” al comando di Facio. Dante Castellucci – il suo vero nome – aveva allora 23 anni. Quattro anni prima aveva conosciuto un burattinaio reggiano quasi coetaneo, Otello Sarzi, comunista confinato al suo paese Sant’Agata d’Esaro in provincia di Cosenza. Per suo tramite dopo l’8 settembre del 1943 era entrato in contatto con la banda dei fratelli Cervi che lo avevano accolto nella loro cascina di Campegine, nelle campagne tra Parma e Reggio Emilia. Catturato dai tedeschi come ex militare ed evaso dalla Cittadella di Parma, Castellucci si era poi unito in montagna al gruppo “Picelli” organizzato dal Partito comunista.
Al rifugio Facio e i suoi partigiani erano giunti verso sera il 16 di marzo dopo due giorni di cammino dalla zona di Cervara nel pontremolese e un tentativo fallito di attacco al presidio della centrale idroelettrica di Teglia, seguendo il percorso dei Prati di Lagarghegna. Invano lassù avevano atteso per altri due giorni il resto del distaccamento che, seguendo un altro tragitto, avrebbe dovuto ricongiungersi a loro. Ignoravano che nel pomeriggio del 15 i loro compagni erano stati attaccati e dispersi a Succisa, sulle pendici del monte Molinatico, da reparti della X.a Flottiglia Mas. Nello scontro era caduto anche Alberto (Fermo Ognibene), il comandante del distaccamento, insieme a due partigiani.
Nel frattempo la presenza del gruppo di Facio al rifugio del Lago Santo era stata segnalata al comando provinciale della Guardia nazionale repubblicana e alla Militärkommandantur di Parma che disposero quasi subito l’invio di un contingente armato, a bordo di tre corriere e di alcuni altri automezzi militari. Raggiunto l’abitato di Bosco il giorno 18, la truppa salì a piedi nella neve fino al lago giungendovi nelle prime ore del pomeriggio.  L’unica fonte coeva che dia testimonianza di ciò che accadde là sono i “Notiziari” di parte fascista redatti quotidianamente dal comando generale della Guardia cui venivano inviate le numerose informative raccolte dai comandi locali. Manca invece qualsiasi documentazione contemporanea di parte avversa, data la precarietà dell’organizzazione partigiana in quei primi mesi di vita.   
Con la concisione tipica dei bollettini militari, i notiziari della Guardia nazionale repubblicana confermano in linea di massima tutti gli elementi essenziali desumibili da altre fonti non coeve: date, orari, sequenza dell’assedio e del combattimento, numero delle vittime e dei feriti sono gli stessi.  Nella sezione “Operazioni contro i ribelli” il notiziario del 21 marzo a due giorni dai fatti riferisce di uno scontro a fuoco avvenuto presso il rifugio sul lago. Vi si legge che le «Forze operanti in località Lago Santo, verso il confine di Apuania, composte di 80 legionari della G.N.R. e di 30 tedeschi con una sezione di artiglieria hanno testé circondato un rifugio, ove si era asserragliata una banda ribelle di forza imprecisata, che è in via di annientamento. Le perdite nostre sono: due morti (un legionario e un soldato tedesco) e un legionario gravemente ferito. Non si conoscono quelle inflitte ai ribelli»[1]. Si fa anche cenno ad una segnalazione pubblicata sul bollettino del giorno precedente.
Nel notiziario del 22 marzo, fra le notizie pervenute al comando nelle ultime ore compare questo trafiletto: «Durante le operazioni di rastrellamento, tuttora in corso nella zona LAGO SANTO di CORNIGLIO PARMENSE (PARMA), i legionari hanno finora avuto 5 morti e 5 feriti». Dopo quella data nelle pagine dei notiziari non si trova più traccia dell’evento che non è nemmeno menzionato nella relazione periodica della Militärkommandantur per il periodo compreso fra il 16 marzo e il 15 aprile.
Come si svolse il combattimento? Quale esito finale ebbe? Che cosa accadde dopo?
Le risposte a questi interrogativi si possono ricavare dai racconti orali di tre testimoni diretti degli eventi, che furono intervistati nel novembre del 1988[2].
L’unico testimone allora vivente, che avesse partecipato al combattimento, si chiamava Giorgio Giuffredi. All’epoca dei fatti aveva vent’anni, lavorava come operaio alla “Ceramica Ligure” di Pontano Magra poi, soldato di leva sbandato l’8 settembre del ’43, si era unito ai partigiani del “Picelli”. Così egli racconta l’arrivo al rifugio e l’inizio dello scontro a fuoco: «Alla mattina, all’alba, siamo partiti e siamo passati da Bosco di Corniglio, abbiamo mangiato lì in una trattoria e siamo arrivati poi piano piano al Lago Santo […] Facio dice: “Facciamo pulizia un po’ e mettiamo su il calderone per far da mangiare”. Senonché, mentre passo davanti… passo davanti alla finestra e vedo i tedeschi sotto. Allora, sarà stata… guarda: le due… le due e mezzo così, dopo pranzo del 18 marzo. Allora saltiamo giù, si spranga le porte, perché erano proprio sotto lì […] Dopo un po’, è cominciato il combattimento. Lì sparano, ma c’era anche della Brigata nera, della gente del posto, perché parlavano l’italiano alcuni».
I partigiani si schierano a difesa sui due piani dell’edificio ma appare subito evidente la disparità delle forze: oltre alla superiorità numerica, gli assedianti dispongono di alcune mitragliatrici di grosso calibro con una notevole potenza di fuoco e di penetrazione, mentre i partigiani possono solo contare sulle armi leggere individuali, di cui appena due automatiche, con munizioni insufficienti per affrontare uno scontro prolungato:
«La sparatoria – continua il testimone – è stata tremenda, perché ci hanno investito con delle mitragliatrici pesanti: bucavano i muri, venivano giù i calcinacci dai muri, ci venivano addosso […] Facio ci raccomandava di sparare un po’ a colpo sicuro perché sapevamo le armi che avevamo […]
Lui aveva un mitra e io il parabello russo, con diverse munizioni […] gli avevo dato il mitra e c’era il caricatore pieno, due ce li aveva pieni nella cintola, poi aveva delle munizioni sparse in tasca, mentre gli altri avevano i moschetti con qualche caricatore e delle bombe a mano Balilla, che non facevano niente, facevano del gran rumore».
Sperando che i compagni del secondo gruppo possano raggiungerli in rinforzo, i partigiani di Facio si apprestano ad affrontare la nottata. «È avvenuto nella notte che quattro o cinque volte ci hanno intimato la resa, noi abbiamo risposto col fuoco». Le lunghe ore al buio trascorrono comunque senza sorprese, solo con rari scambi di colpi d’arma. La possibilità che i nemici possano minare l’edificio è però motivo di costante inquietudine per gli assediati: «Si pensava sempre di saltar per aria, ma d’altra parte abbiamo pensato: “Se usciamo ci ammazzano, allora resistiamo fino a che possiamo”. Ti dico che ormai eravamo seminudi, perché le esplosioni delle bombe, che venivano dentro, ci portavano via i vestiti […] Non si parlava più perché poi con la sete, con la polvere […] ci guardavamo negli occhi e quello era il comando».
I momenti più drammatici sopraggiungono con il chiarore dell’alba. Mentre gli assedianti rinnovano le intimazioni di resa («dicevano, “Vi staniamo. Prima o dopo vi staniamo”»), tra i difensori affiora qualche dubbio («ormai cosa ci stiamo a fare lì? Ci danno l’onore delle armi») e cominciano ad apparire i primi segni di cedimento: «A quel punto c’era anche incertezza: due dei nostri bravi partigiani – che non vorrei neanche nominarli – ecco, erano in crisi. Uno era spaccato alla spalla da una pallottola e l’altro… in crisi proprio tremenda. Erano andati fuori di sé». In tale condizione, nell’impossibilità di resistere al piano terra del rifugio con un solo partigiano in grado di combattere, Facio ordina ai compagni appostati al piano superiore di ripiegare di sotto. È di nuovo Giorgio Giuffredi a rievocare quel frangente: «Noi eravamo su e [Facio] dice: “Ci ritiriamo giù, facciamo tutto quello che possiamo, spariamo fino a che abbiamo i colpi, tiriamo le bombe a mano e poi ci prenderanno”. Comunque eravamo tutti feriti, nudi eravamo, nudi perché non avevamo più niente addosso. E così è stato, siamo andati giù. I tedeschi avevano occupato il piano di sopra».
L’ultima immagine del combattimento descritta dal testimone è una sparatoria disperata, con gli ultimi colpi esplosi dai partigiani contro il soffitto nel tentativo di fermare l’irruzione dei nemici: «C’era quel pavimento di legno [al piano superiore], sai? Delle tavole c’erano. Si sparava su e allora [gli assalitori] hanno cercato di buttarsi giù da uno scalone di legno […] non so se sono morti tutti o feriti […] Ad un certo punto, caro mio, hanno lasciato il campo».
Ulteriori dettagli emergono dai racconti degli altri due testimoni: il giovane medico condotto di Corniglio, Giorgio Campanini, prelevato d’urgenza nella notte e condotto sul luogo dei combattimenti ancora in corso, per assistere i primi feriti, e con lui il capo operaio dell’Azienda forestale dello Stato, Lino Magnoni.
Dall’esterno del rifugio essi poterono assistere ai momenti conclusivi dello scontro a fuoco in un punto di osservazione speculare rispetto a quello del primo testimone.
Così ne racconta il dottor Campanini: «Io sono stato chiamato di notte, sono andato su, mi sono venuti a prendere, mi hanno portato in macchina o in camion fino a Bosco; da Bosco a piedi sono arrivato al Lago Santo […] ho visto un morto lì che era un milite poi c’è stata la sparatoria, l’attacco finale, la sparatoria e… e io adesso lo dico a voi, ma quando mi hanno offerto… il comandante mi ha detto, mi ha offerto un fucile e io gli ho detto: “Guardi, io sono un medico prima di tutto e poi non sparo contro gli italiani”. Lui mi ha guardato e mi ha apprezzato. Poi ha detto: “Non sparate, non sparate, non sparate” e hanno deciso di togliere l’assedio».
È il caso qui di notare come il ricordo del dottor Campanini registri solo di sfuggita la sparatoria con le sue vittime mentre si sofferma più volentieri su quei particolari – ad esempio, il rifiuto di imbracciare l’arma offertagli dall’ufficiale repubblichino – che sottolineano il suo comportamento coerente come medico e antifascista.
La testimonianza di Lino Magnoni, invece, rivela alcuni importanti elementi che ci aiuteranno a capire i motivi dell’inatteso epilogo.
«C’era mezzo metro di neve fino al Lago Santo. – ricorda il testimone – Arriviamo lassù e c’erano già due morti: uno davanti al rifugio e uno dietro […] Lì organizzano l’attacco in grande stile, ordinato da questo maresciallo tedesco. Allora il mitragliatore, quello che avevano di più pesante, lo puntavano alle finestre e si trattava di andare avanti a bombe a mano per entrare nel rifugio […] fungeva da interprete uno di loro, che era vestito da tedesco ma parlava correttamente l’italiano. […] Si sono avvicinati, quello là ha sganciato [tolto la sicura] tre o quattro bombe, quelle tedesche dal manico di legno, e poi ha lanciato contro una finestra del rifugio. Anziché infilare la finestra è andato a sbattere, questo pacco di tre-quattro bombe, in un ramo di faggio. Sono cadute per terra ed è stato dilaniato […] [Gli assalitori] Sono riusciti ad entrare nella sala che guarda il lago […] A furia di bombe a mano sono entrati nella prima stanza. Anche là sono stati feriti due o tre […] Allora questo maresciallo tedesco li voleva mandare avanti a pedate nel sedere […] Nessuno più voleva entrare».
Cessato il fuoco gli attaccanti conteranno nelle loro file 16 morti, tra cui il comandante e altri due ufficiali della Guardia nazionale repubblicana, oltre a diversi feriti. A quel punto si decide di interrompere l’azione e di ripiegare verso Bosco. Un insieme di ragioni contribuì a determinare questa scelta. In primo luogo la tenace resistenza incontrata e le pesanti perdite subite, ma anche il mancato arrivo da Parma dei rinforzi che erano stati richiesti. Infine la prospettiva di dover affrontare una seconda notte all’aperto nel gelo e nella neve («Un po’ di neve veniva, ma c’era la neve alta due metri. Poi avevi davanti subito quel lago di ghiaccio», Giuffredi) con il timore di un possibile attacco da altri gruppi partigiani allarmati per i rumori del combattimento. Tutto questo, molto probabilmente, spinse i militi fascisti e i soldati tedeschi sulla via della ritirata, limitandosi a lasciare indietro qualche sentinella appostata a distanza dall’edificio.
Prima che il buio della notte calasse sulla conca del lago, i nove partigiani perlopiù feriti in modo lieve abbandonarono il rifugio, evitando le sentinelle. Diretti verso il monte Orsaro, raggiunsero il paese di Cirone dove vennero accolti ed assistiti dagli abitanti. È ancora Giorgio Giuffredi a rievocare con emozione l’ultimo quadro con cui si chiude questa storia: «io non so come, mi sono trovato in una capanna ad essere curato e non so chi mi ci ha portato lì, ecco. Perché ci ha portati via, credo, della gente del posto […] Ci siamo trovati su una slitta, […] quelle slitte che portano il concime, lì in cima, e ci siamo trovati dentro ad una capanna, una capanna dove ci hanno curato».
Dopo il fatto d’armi del Lago Santo Facio divenne il comandante del distaccamento “Picelli”. La voce di ciò che era accaduto ben presto assunse la forma di una narrazione orale epica che prese a circolare nelle valli parmensi e della Lunigiana, una leggenda in cui il nome di Facio era quello dell’eroe primario. È abbastanza singolare che la “nascita della tradizione”, in questo caso sia legata anche al riconoscimento dell’eroismo dei partigiani da parte del nemico tedesco. Lo apprendiamo in una testimonianza di Paolo Vassallo, raccolta e trascritta da Paolo Tomasi nel 1988. All’epoca dei fatti Vassallo aveva diciassette anni ed era uno studente liceale già in contatto con la resistenza. La scena di cui fu testimone oculare si svolse a Pontremoli nello storico “Caffè degli Svizzeri” pochi giorni dopo il combattimento del Lago Santo. Questo è il suo racconto:
«Quando il capitano tedesco portò alle labbra la sigaretta, un tenente della G.N.R. si affrettò ad accendergliela e cercò di intavolare con lui una conversazione. Il capitano rispose in un italiano stentato ma comprensibile. Chiese quale fosse il loro compito a Pontremoli. L’interpellato rispose che si apprestavano a partire per il fronte, ma principalmente erano impegnati a ripulire quelle zone dai ribelli e dai banditi. L’ufficiale rimase un attimo pensieroso e poi, scandendo lentamente le parole rispose: “È vero, forse saranno dei ribelli o, come dite voi dei banditi, però a noi risulta che un gruppo di questi banditi, in un combattimento presso un lago qui vicino, si siano comportati da eroi”»[3].
Per i suoi Facio fu da subito un eroe, ma nell’estate venne preso con l’inganno dai partigiani di un’altra zona e fucilato dopo una finzione di processo basata su false accuse[4]. Nel settembre del 1945, soprattutto per l’impegno della sua compagna Laura Seghettini, venne presentata al tribunale straordinario di Massa la denuncia contro i presunti responsabili dell’uccisione di Facio. L’atto era accompagnato da un abbondante corredo di testimonianze e tuttavia il processo non si celebrò mai per la sopraggiunta amnistia o perché non si ritennero sufficienti gli elementi per procedere[5].
Tuttavia ancora oggi, «La comunità locale – ha scritto Giovanni Contini – conserva la memoria di Facio come quella di una vittima eroica»[6].
Questa però è già un’altra storia, dove il lavoro della memoria conferisce un carattere mitologico alla figura dell’eroe. È l’epifania di un mito genuino che nasce dal profondo radicamento di una storia nella coscienza collettiva di una comunità. Non ci deve stupire se la leggenda di Facio, solo in apparenza per un caso della sorte, sia venuta ad incrociarsi con quella di Guido Picelli, l’eroe delle barricate antifasciste del 1922 al quale i comunisti di Parma vollero intitolare il primo distaccamento partigiano. 
Per spiegare la lunga tradizione dell’epopea delle barricate e del mito picelliano ci sarebbe di aiuto la riflessione di Maurice Halbwachs attraverso il concetto di memoria collettiva formulata nel suo studio più noto. Qui basterà ricordare che per quel piccolo universo ribelle dell’Oltretorrente parmigiano, dove gli squadristi non erano riusciti a penetrare nell’agosto del ’22, la piena affermazione del regime fascista ebbe conseguenze particolarmente tragiche, sia materiali che simboliche. Alle misure repressive attuate dal nuovo stato totalitario – le pratiche persecutorie della polizia, lo sventramento dei borghi d’Oltretorrente, il trasferimento forzato degli abitanti nei nuovi insediamenti ultrapopolari dei “capannoni” – si affiancò un’abile politica di “abusi della memoria”, dove il racconto ufficiale di quelle giornate memorabili glorificava la violenza squadrista e denigrava la resistenza popolare sulle barricate come un atto criminale.
Guido Picelli, più volte aggredito e percorso, costretto a lasciare Parma, privato dei mezzi di sostentamento, nel 1926 fu arrestato e confinato per cinque anni a Lipari. Espatriò clandestinamente dopo il rilascio, iniziando un viaggio senza ritorno che lo condusse dapprima in Francia e poi, attraverso vari paesi d’Europa fino nell’Unione sovietica, da ultimo a combattere il fascismo in Spagna dove aveva appuntamento con la morte
il 5 gennaio 1937. Mentre il fascismo ingiungeva l’oblìo delle lotte del passato, i superstiti del popolo delle barricate, dispersi e smarriti, continuarono a perpetuarne dolorosamente la narrazione e il mito di Guido Picelli, alimentato da un’insaziabile nostalgia, ne divenne il nucleo più ostinatamente vitale[7].
Kerényi era convinto che il mito dell’eroe nell’antica Grecia fosse inscindibilmente legato al suo culto funerario. Riflettendo su questo riferimento, molti anni fa, nell’osservare le fotografie del funerale di Picelli a Barcellona immaginai che proprio in quei momenti, mentre il suo corpo usciva dal tempo della storia e transumanava nel tempo del racconto, fosse cominciata l’epifania del suo mythos. Non saprei oggi affermare se ciò corrisponda a verità, né se la circolazione a Parma di cartoline con l’immagine dell’eroe delle barricate dopo che Radio Barcellona aveva dato notizia della sua morte, o il fatto che la prima banda partigiana formatasi sui monti del Parmense alla fine del 1943 avesse preso il suo nome, ne siano indizi probanti.
Posso dire solamente che, quando registrammo i racconti dei testimoni dell’agosto 1922, sessant’anni dopo le barricate quella leggenda nell’Oltretorrente risuonava ancora.


[1] Cfr. Daniele Mor e Aldo Sorlini (a cura di), Fondazione Luigi Micheletti. Il fondo Repubblica Sociale Italiana, Brescia 1985, pp.143-44. Presso l’archivio dell’Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea di Parma è conservata la schedatura dei notiziari GNR riguardanti la provincia parmense con i relativi testi.

[2] Guido Pisi e Luigi Rastelli, Il combattimento del Lago Santo (18-19 marzo 1944), in «Storia e documenti”», 1989, 1, pp.149-168. Le audioregistrazioni delle testimonianze, trascritte e schedate, sono conservate presso l’archivio dell’Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea di Parma.

[3] Pisi – Rastelli, Il combattimento del Lago Santo, cit.

[4] Carlo Spartaco Capogreco, Il piombo e l’argento. La vera storia del partigiano Facio, Roma 2007; recentemente la vicenda di Facio è stata ricostruita anche nel volume di Massimo Salsi, Il pezzo mancante. Una spy story nella Resistenza italiana, Roma 2022.

[5] Laura Seghettini, Al vento del Nord. Una donna nella lotta di Liberazione, a cura di Caterina Rapetti, Roma 2006.

[6] Giovanni Contini, Toscana 1944. Per una storia della memoria delle stragi naziste, in Gianluca Fulvetti e Francesca Pelini (a cura di), La politica del massacro. Per un atlante delle stragi naziste in Toscana, Napoli 2006.

[7] Cfr. Guido Pisi, L’ombra incerta dell’eroe. La leggenda di Guido Picelli nelle narrazioni orali dei contemporanei, in William Gambetta e Massimo Giuffredi, Memorie d’agosto. Letture delle barricate antifasciste di Parma del 1922, Milano 2007.

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