Franco Trevisi, AUTUNNO A MONTE SOLE (Il Cimitero di Casaglia), olio su tela, 1977

In esergo ad un interessante documentario sui Bronzi di Riace[1] mi imbatto in una citazione da Georges Didi-Huberman “Storia dell’arte e anacronismo delle immagini” del 2007:

L’immagine ha spesso più memoria e più avvenire di colui che la guarda.

Ricordo di averla già incontrata in passato, ma evidentemente non aveva trovato in me nessuna corda tesa che la facesse risuonare. Questa volta, al contrario, non sono riuscita a smettere di pensarci e quindi, tornata a casa, mi sono dedicata a qualche veloce approfondimento. Vengo colpita per la seconda volta quando scopro che questa frase in realtà è “solo” la conclusione di un periodo più complesso:

Di fronte a un’immagine dobbiamo riconoscere con umiltà che essa probabilmente ci sopravviverà, che siamo noi l’elemento fragile, passeggero, e che è l’immagine l’elemento futuro, l’elemento della durata. L’immagine ha spesso più memoria e più avvenire di colui che la guarda.

E l’eco si trasforma in melodia.

Gli eccidi di Monte Sole[2]

L’area di Monte Sole è un territorio collinare situato tra le valli del fiume Reno e del torrente Setta, nella parte meridionale della provincia di Bologna. Durante la Seconda Guerra Mondiale, era abitata da circa 2.000 persone. L’ultima linea del fronte, la Linea Gotica passava poco lontano e rappresentava la retroguardia difensiva del confine meridionale del Terzo Reich nazista.
Dall’ottobre 1943 era attiva nell’area una brigata partigiana chiamata Stella Rossa, composta principalmente da elementi locali di diversa matrice politica e culturale. La brigata agiva con operazioni di sabotaggio finalizzate a disturbare sia la presenza che la ritirata nazista.
Nell’estate del 1944 si stanziò nell’area la 16a divisione corazzata granatieri Reichsführer delle SS comandata da Max Simon. Fu questa divisione che decise, pianificò e attuò un’operazione militare per il rastrellamento del “territorio nemico” e per debellare la presenza partigiana, le cui attività venivano definite «attività di bande e banditi».
Nelle prime ore del 29 settembre 1944, 4 compagnie appartenenti al battaglione esplorante della divisione (Aufklaerungs abteilung), sotto il comando del Maggiore (SS-Sturmbannführer) Walter Reder, partirono dalla valle del Setta alla volta delle colline di Monte Sole dove si sospettava fossero i partigiani. Altre unità erano dislocate nella valle del Reno per accerchiare tutta la zona. L’operazione si svolse in ottemperanza alle teorie dell’esercito tedesco sulle operazioni di antinsurrezione che furono sviluppate e messe a punto sul fronte europeo orientale. La manovra nazista centrò l’obiettivo: entro poche ore la brigata fu annientata e i partigiani resi inoffensivi, costringendo i più alla fuga durante la notte. L’operazione si è ripetuta secondo le stesse modalità fino al 5 ottobre. Le vittime furono praticamente tutte civili: solo 7 soldati nazisti furono uccisi e circa 20 partigiani uccisi, feriti o fatti prigionieri. I nazisti bruciarono le case e uccisero gli animali.
Il bilancio dei sette giorni di massacro ha raggiunto la cifra di 770 vittime, tra cui 216 bambini, 142 anziani e 316 donne. L’operazione è stata pianificata a tavolino e non è stata pensata come reazione a particolari azioni della resistenza partigiana, la quale, da un punto di vista militare, era alquanto debole. Gli eccidi di Monte Sole non possono essere annoverati quindi sotto la categoria della rappresaglia, ma sono un’operazione di bonifica finalizzata al massacro.
L’operazione fu un successo dal punto di vista nazista: l’area, i suoi abitanti, e con loro ogni possibilità di resistenza, erano stati annientati.

L’immagine-memoria

Questi eventi sono stati costruiti nella memoria pubblica italiana come “strage di Marzabotto” e sono andati a far parte del mito fondativo postbellico della neonata Repubblica Italiana. La “strage di Marzabotto” diventa, insieme ad altri eventi storici simili (o ritenuti tali), simbolo del sacrificio antifascista di tutti gli italiani e le italiane, grande rito auto-assolutorio del recente passato fascista. Nelle parole della medaglia d’oro conferita alla città nel 1949: “Marzabotto preferì ferro, fuoco e distruzioni piuttosto che cedere all’oppressore. […] I morti riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni di quanto possa l’amore per la patria”.
In buona sostanza, gli accadimenti storici si sono allontanati dall’evenemenzialità per farsi immagine, assumendo la peculiare atemporalità di ciò che, dal nostro punto di osservazione presente, sappiamo avere radici nel passato e percepiamo avere (o desideriamo che abbia) proiezione verso il futuro, di ciò che deve rimanere identico a sé stesso per avere significato.
I monumenti, i riti commemorativi, le narrazioni sono tutti elementi che compongono quell’immagine e benché sembrino restituire molteplicità non fanno altro che ridurre la complessità, poiché il loro scopo è quello di creare, consolidare e mantenere un senso forte di identità e di appartenenza per chiunque li attraversi. «Si agisce come se il presente non abbia memoria e come se il passato non abbia influenza. […] Si tratta l’attualità come un semplice presente spogliato delle sue “fonti”. Si trattano le commemorazioni come un semplice passato spogliato delle sue implicazioni presenti»[3]. È uno strano andirivieni tra il prima e il dopo che di fatto produce una sorta di immobilità poiché l’immagine è l’unico punto fermo cui tutti/e ci rivolgiamo, pensando di vedere tutti/e la stessa cosa. Ecco quindi che l’immagine costruita, riprodotta e perpetuata accumula sicuramente più memoria (ma non più storia o più chiarezza) di quanta possa averne colui/colei che la guarda.

Il lavoro di memoria

Lavorare alla Scuola di Pace di Monte Sole[4] significa dover fare i conti con questa pratica del ricordare che rischia di sovrastare la storia, con una serie di tempi presente di usi, abusi e contro-abusi pubblici e privati della storia stessa e delle memorie. Fare educazione su di un “luogo del trauma” non può prescindere da una profonda riflessione sul luogo come rappresentazione e sulle sue differenti e talvolta dissonanti componenti. L’azione del processo educativo è infatti quella dello “smontaggio” dell’immagine “costruita” sul luogo e attraverso di esso, è quella di conseguente trasformazione della commemorazione autoassolutoria e del rito identitario in spazio/tempo di riflessione pluriversa che apre a interrogativi imprevisti su azioni e linguaggi della propria presenza nel mondo.
Nella pratica esperienziale della Scuola di Pace di Monte Sole questa decostruzione si svela esattamente attraverso il processo educativo. Esso, attivando nei/lle partecipanti al contempo la sfera fisica, emozionale e cognitiva e partendo dall’analisi del comportamento dei perpetratori, con l’accortezza di non ridurre le analogie a uguaglianze, mira a individuare in diversi fattori che si possono annoverare come fondamentali nella genealogia della violenza nazista e fascista, dispositivi e meccanismi che fanno parte del nostro quotidiano stare insieme: la propaganda e la pubblicità; l’educazione; i mezzi di comunicazione di massa; l’imposizione rigida di modelli e identità; la costruzione e la reiterazione, consapevole e non, di stereotipi, pregiudizi e stigmi; l’esclusione, il razzismo e la discriminazione; l’obbedienza all’autorità; la ricerca del prestigio sociale; il conformismo e l’adeguamento alla pressione del gruppo; la categorizzazione e la disumanizzazione dell’altro attraverso il linguaggio verbale e delle immagini; la socializzazione del rancore; la costruzione del capro espiatorio e di identità oppositive noi/loro.
Anche in questo riconoscimento dei meccanismi di violenza quotidiani l’analisi critica deve prevalere sul giudizio, la comprensione e la decostruzione sulla condanna e sulla trasmissione valoriale sotto forma di comandamento. Il conflitto e la crisi, una volta nominati e riconosciuti, possono diventare veicoli di cambiamento positivo.

L’immagine-vita

Il 10 gennaio scorso ho compiuto 20 anni di lavoro alla Scuola di Pace e quello che ho tentato di riassumere in poche righe è un’azione professionale – un lavoro di memoria e con la memoria appunto – che mi piace pensare declini quotidianamente il mio personale ambire ad una società diversa, non basata sullo schema binario del noi/loro, non basata cioè sulla gerarchia degli esseri umani, ma fondata sul valore di ciascuno e di ciascuna, sul senso di una comunità umana solidale, giusta e orizzontale. Forse, pur con un po’ di immodestia, una possibile pratica quotidiana di resistenza individuale e collettiva.
Ma Monte Sole non è mai stato e mai potrà essere solo lavoro o attivismo. La quantità di persone, momenti ed emozioni che ho dentro è incalcolabile. La loro qualità incommensurabile.
Da un paio d’anni però, proprio in occasione del 25 aprile, c’è una persona – con i suoi momenti e le sue emozioni a rimorchio – che si staglia particolarmente. Il suo nome è Cornelia Paselli, che ci ha lasciato il 19 aprile 2022, che ho salutato per l’ultima volta al funerale del 24 aprile, proprio prima di salire a Monte Sole per iniziare l’organizzazione dei festeggiamenti per la liberazione.
Cornelia l’ho incontrata per la prima volta nel 2005. Nella sua memoria, lei ha cominciato a raccontare proprio in seguito a quell’incontro ma io so che non è così. Sono molto orgogliosa e grata che lei si sia sentita tanto al sicuro con noi e che con noi abbia trovato una dimensione umana che le permettesse di vivere il ricordare e il parlarne un’esperienza liberatoria e non un peso, ma ho anche sempre cercato di rimanere consapevole delle responsabilità che questo comporta. La vicinanza e l’affetto potrebbero talvolta sfociare in un senso di gelosia per quello che Cornelia mi ha fatto provare, mi ha trasmesso e insegnato.
Ho ascoltato Cornelia tante volte ma “la versione” del suo racconto che è entrata nelle mie orecchie e di conseguenza nel mio cuore e nella mia mente, è quella prodotta da un puzzle biografico fatto prendendo pezzi di video interviste, di incontri informali, di viaggi in macchina e ritorni a Monte Sole. Ci sono parole ed espressioni che non posso pronunciare senza che il pensiero corra a lei, ci sono angoli di Monte Sole che hanno assunto significato in relazione a lei. Mi è stato fatto notare che sembra che il mio rapporto con la testimonianza di Cornelia è simile al rapporto con una preghiera e forse è vero. Ad una preghiera non si possono cambiare le parole, pena la violazione della sua intrinseca sacralità.
Ed ecco che improvvisamente ritorna l’eco di Didi-Huberman. E ritorna potente perché l’immagine-memoria di Cornelia non è solo interna ma ha una materialità speciale perché fisica e tangibile.
Nel 1977 il marito di Cornelia – pittore amatoriale ma molto stimato – ha dipinto il Cimitero di Casaglia, il luogo dove la famiglia di Cornelia è stata sterminata, dove lei ha perso tutto tranne il senso della sacralità della vita. Quell’olio su tela era appeso nel salotto di Cornelia e lei ce lo ha mostrato e raccontato per la prima volta nel 2014. È stata una folgorazione, perché quel quadro è riuscito a rappresentare l’essenza stessa di Cornelia, il suo essere per via della sua storia, il suo essere nonostante la storia. I colori ad olio, tenui e leggeri, non riescono a trasmettere l’orrore e la disperazione se non in modo indiretto in riferimento a quel titolo che recita “Autunno a Monte Sole”. Quel Cimitero di Casaglia è semplice, fluido, pacato e fermo, proprio come era Cornelia. Ecco che quell’immagine ha tantissima più memoria di quanta possa averne io che lo guardo. Racconta di un matrimonio lungo, solido, d’amore ma sempre sotto lo scacco del trauma profondo e doloroso. Racconta di una vita che c’era prima che è stata spazzata via e di un’altra che Cornelia ha fortemente voluto e costruito “nonostante tutto”[5]. Racconta di persone e situazioni che io non ho mai conosciuto, di emozioni che non ho mai provato, di riflessioni che non ho mai formulato. Ma che sono tutte lì, condensate in quelle pennellate.


Di fronte a quell’immagine devo riconoscere con umiltà che essa probabilmente mi sopravviverà, che sono io l’elemento fragile, passeggero, e che è l’immagine l’elemento futuro, l’elemento della durata.

D’altra parte, non solo quell’immagine mi sopravviverà, ma ad onor del vero quell’immagine mi ha con buona probabilità preceduta: è stato dipinto nell’anno in cui sono venuta al mondo. Come posso pensare di avere più memoria di quel quadro?
Mentre il potere si arroga il diritto di dettare legge all’immagine-memoria, e si dibatte con tutte le sue forze per mantenerne il controllo, l’essere umano si può permettere il lusso di godere della luce che l’immagine-vita emana, si può abbandonare a tutti gli orizzonti possibili che l’immagine-vita regala senza chiedere nulla in cambio.

Credo che la parola regalo non sia sbucata per caso nella mia mente. Riordinando le cose di Cornelia dopo il funerale, i suoi figli hanno deciso di donarmi quel quadro. Io non gliene sarò mai abbastanza grata, perché non mi hanno regalato solo un oggetto preziosissimo, ma mi hanno regalato una finestra spalancata sulla vita. E io non intendo lasciare che si chiuda.


[1]SEMIDEI, regia di Alessandra Cataleta, Fabio Mollo, Italia, 2023

[2]Molte ricerche, amatoriali e non, sono state pubblicate sugli eccidi di Monte Sole. Il volume più approfondito e scientificamente strutturato è la ricerca condotta da L. Baldissara e P. Pezzino e pubblicata nel 2009: “Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole”, Il Mulino, Bologna. Questa è la fonte storiografica alla base di tutte le considerazioni di questo articolo.

[3]https://www.doppiozero.com/la-condizione-delle-immagini

[4]https://www.montesole.org/

[5]Cornelia Paselli, Vivere, nonostante tutto, a cura di Alice Rocchi, ed. Zikkaron, 2021
https://www.zikkaron.com/prodotto/vivere-nonostante-tutto/

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