I tanti ed epocali cambiamenti in corso hanno piĂą volte creato e scompaginato costruzioni sociali e politiche, scenari geopolitici, aspettative ed illusioni. Si è passati dalla perentoria affermazione sulla fine della storia, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, allo scoppio di nuovi e diffusi conflitti, spesso considerati “minori” – non si capisce in base a quali criteri – e quindi non degni di “copertura” giornalistica. In Europa, i conflitti nella ex Jugoslavia prima e la guerra della Russia all’Ucraina poi, hanno inciso in profonditĂ  la corteccia del nostro mondo, aprendo squarci e ferite. Il mondo, lungi dall’aver trovato un nuovo equilibrio, vive una fase di incertezze, di sommovimenti sociali e politici, di affannose ricerche. Alla divisione imperniata sui due blocchi politici e militari della NATO e del Patto di Varsavia, ha fatto seguito – forse inevitabilmente – la riscoperta di vecchie identitĂ  accompagnata, spesso, da improbabili e arbitrarie letture storiche tese a legittimare confini, identitĂ , popoli e nazioni riemerse dal fondo di secoli di segregazioni e negazioni.
I problemi posti dalla globalizzazione, le nuove tecnologie, l’alto grado di interdipendenza raggiunto nel nostro mondo sempre più piccolo e, dall’altra parte, quasi come una reazione di difesa, la rincorsa alle piccole patrie, ai territori, alle tradizioni vere e presunte, rappresentano le due facce di questo nostro tempo inquieto. Questo quadro sarebbe tuttavia incompleto se non sottolineassimo che le condizioni di vita, il godimento di diritti civili e politici, la democrazia come spazio e nutrimento della polis, sistemi di welfare variamente configurati, definiscono soprattutto le società occidentali ed altre sparse nei cinque continenti che, complessivamente considerate, rappresentano purtroppo una minoranza. Ancora oggi il nostro mondo ricco ed opulento, che rappresenta il 20% circa della popolazione mondiale, consuma l’80% delle risorse complessive. Una sproporzione così macroscopica che spesso viene rimossa dalle coscienze sazie solo di beni di consumo, non solo non può durare all’infinito ma non può rappresentare il fondamento di un futuro come spazio di speranza e di pacifica realizzazione dei progetti di vita per tutti. Al contrario, può alimentare vecchi problemi e generarne di nuovi. Se smarriamo la consapevolezza delle tante differenze, delle tante, troppe, ingiustizie perdiamo la possibilità di capire. E, per capire davvero, occorre partire dalla formulazione di buone domande, cosa tutt’altro che facile se lasciamo le rive tranquille ma paludose della superficialità.
Una prima possibile domanda è: posto che le soluzioni sono frutto di processi condivisi, di faticose ricerche e di ascolto delle esigenze degli altri, di cosa c’è bisogno per indicare una linea possibile, un percorso, una serie di obiettivi che delineino un positivo cambiamento percepito come tale dagli individui e dagli Stati?
La seconda domanda è: con che cosa si realizzano questi avanzamenti? Con quali materiali si costruiscono le soluzioni?
La terza domanda è: chi può o deve lavorare a queste realizzazioni?
La quarta e decisiva domanda è: in questo catalogo c’è posto per la pace? La pace è una soluzione o una astratta, chimerica aspirazione, condannata a restare nel novero delle cose belle ma impossibili?
Penso che l’insieme di alfabeti emozionali ed intellettuali, che chiamiamo cultura della pace, debba oggi misurarsi con queste intricate questioni che richiedono una visione all’altezza delle nuove sfide. La pace è un sapere che deve essere investito per generare strumenti, proposte, azioni e un insieme dinamico di prassi e riflessioni teoriche che configurino una nuova visione dei rapporti tra Stati e tra persone.
Proverò a entrare in alcuni di questi nodi cercando, non la risposta chiara e definitiva, ma qualche elemento con cui provare a costruire un piccolo, magari provvisorio, avanzamento.
Il nostro adesso è un mondo in cui il tema dell’identitĂ  dei popoli e delle culture ha assunto un posto centrale nel dibattito politico, mosso da urgenze e, a volte, ossessioni, che sembrano obbedire esclusivamente all’esigenza di mettere ordine, di classificare, di attaccare etichette, di tracciare e difendere confini. Noi e gli altri, di qua e di lĂ , confini certi che rassicurano, che confermano, che distinguono. Lo scontro di civiltĂ  – la nostra è ovviamente superiore – i regni ben definiti del bene e del male sembrano delineare il solo ambito possibile del confronto. In questa corsa alla ricerca di nuove certezze con cui difendere il proprio piccolo spazio da supposte e strillate invasioni, un ruolo determinante assume l’appartenenza etnica, la tribĂą, il pezzo di terra che diventa il nostro esclusivo territorio. Ovviamente il fenomeno attuale delle migrazioni, gli squilibri che inevitabilmente si determinano, alimenta paure e chiusure, che investono sia le societĂ  attraversate da questi flussi che, di riflesso, le relazioni internazionali.
La politica estera di molti, se non di tutti, i Paesi che pure compongono l’Unione Europea è frutto di questa idea di fortezza assediata. Da qui nascono le politiche di respingimento, la convinzione che le motovedette armate possono bloccare le supposte ondate di nuovi barbari; l’idea, meglio l’illusione, che la forza esibita basti a difendere le nostre case, i nostri lavori, il nostro benessere, che ovviamente è e deve restare solo nostro. L’idea di fondo, la chiave di volta è la convinzione che il particulare, unico orizzonte degno di attenzione, si debba difendere con politiche securitarie e chi ha il torto di essere nato fuori dalle cittadelle del benessere deve farsene una ragione e rassegnarsi, accettando questo come un fatto naturale e perciò non modificabile. Se è del tutto evidente che siamo di fronte a processi sociali profondi e di lungo periodo che creano sconvolgimenti, paure, allarme sociale – spesso alimentato e strumentalizzato per fini politici di corto respiro – che chiedono alla politica soluzioni all’altezza di queste sfide, è altrettanto palese che la chiusura di nuove possibilitĂ  e l’edificazione di nuovi muri, culturali innanzitutto, non generano alcuna composizione dei problemi. Al massimo possono far vincere le elezioni, anche se non si possono usare, per lungo tempo, le paure e l’incitamento all’odio razziale perchĂ© l’emergere dell’uso meramente strumentale di questi temi ne logora la forza.
La trama fitta di nodi che segna questo quadro non consente scorciatoie, soluzioni miracolistiche, semplificazioni possibili. Una situazione complessa richiede uno sguardo complesso, capace di vedere tutti gli elementi, di cogliere tutte le sfaccettature, di misurare tutte le asperità. Solo questa consapevolezza può nutrire una nuova cultura che, a sua volta, alimenti una nuova politica che assuma i problemi con l’intento di risolverli, non di agitarli a fini di bassa speculazione politica, costruendo sintesi nuove, basate sull’allargamento dei diritti e sul riconoscimento che la vita di ogni individuo ha la stessa dignità sotto ogni latitudine.
Questa affermazione può sembrare scontata e retorica, a 75 anni dalla promulgazione, da parte dell’ONU, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Ma purtroppo non è così. Questa affermazione si carica oggi di nuovi significati, perché rappresenta la vera cruna d’ago entro cui devono passare le politiche concrete degli Stati. In tante, tantissime parti del mondo quelle affermazioni non hanno alcun diritto di cittadinanza. Nelle nostre democratiche, sviluppate e libere società, ogni giorno misuriamo la fatica di dare attuazione piena a quei principi, in modo particolare quando si tratta di applicarli ai diversi da noi.
La visione politica e culturale che esprime l’insieme dei diritti dell’uomo e per l’uomo, che nel tempo hanno trovato suggello giuridico internazionale, è una risorsa per affrontare i tanti problemi dei nostri giorni. Quei valori hanno una forza straordinaria di liberazione e di progresso. Con questi materiali, se usati con convinzione, si possono costruire soluzioni salde come la roccia, perché ancorate al cuore della dignità umana. Cosa dobbiamo, in fondo, a noi stessi e agli altri che abitano con noi l’unico spazio possibile e l’unico tempo che ci è toccato in sorte se non il godimento dei diritti di tutti e per tutti? E l’unica condizione per fare questo è vivere in pace, vivere con la pace.
Se pensiamo, anche solo per un attimo, che secondo i dati riportati dalla ONG “Armed conflict location&event data project” (Acled), specializzata nella raccolta, nell’analisi e nella mappatura dei conflitti, in questo momento vi sono 59 conflitti armati in corso, che orrore e violenze di ogni genere falcidiano donne e uomini, cancellando generazioni e interi paesi; se pensiamo, alzando gli occhi dal nostro calendario quotidiano, che la guerra è per tanti, troppi, l’unico inferno in cui giocarsi la lotteria della vita; se pensiamo che per milioni di bambini non c’è infanzia, non c’è gioia, non c’è nulla che somigli al mondo descritto – anche per loro, soprattutto per loro – dalla Convenzione sui diritti dell’Infanzia, promulgata dall’ONU, allora capiamo la concreta, vitale urgenza della pace.
Qui si misura quanto è importante l’aspirazione, la richiesta, la costruzione della pace. Qui si comprende come nessuna soluzione di nessun problema umano e quindi sociale, politico, economico, culturale può essere realizzata senza il concorso attivo e consapevole dei cittadini. E la prima soluzione, la soluzione delle soluzioni possibili è la pace. Solo la pace consente il tempo e lo spazio storico per realizzare progressi, conseguire obiettivi personali e collettivi. Solo la pace può dare la pace all’ambiente, a cui, in nome del profitto senza limiti e senza scrupoli, abbiamo dichiarato guerra. E la pace non è un tema fra i tanti, una questione che riguarda i governanti e gli strateghi civili e militari. No, la pace è la terra di tutti, la parola di tutti; per questo non può essere relegata nel chiuso di stanze dove le parole possono essere fatte prigioniere. La pace abita il nostro tempo e le nostre vite; essa ci appartiene perchĂ© solo così la si può difendere e passarla dai padri ai figli, dal tempo nostro al tempo loro che verrĂ  sulle ali delle musiche, delle arti, dei libri, delle parole e dei palcoscenici, con la forza delle mani che si aprono e abbattono, nell’abbraccio, le torri delle paure, dell’odio razziale e dell’ignoranza. Noi dobbiamo – come scriveva Antonin Artaud – ‹‹estrarre da ciò che chiamiamo cultura, le idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame.›› E fame di pace, di tanta fame di pace abbiamo bisogno, adesso.
Paulo Freire ha scritto: “Se gli uomini producono la realtà sociale, allora trasformare questa realtà è un compito storico, un compito da uomini.”
Costruire la pace, alimentare la cultura della pace è perciò un compito da uomini e da donne per gli uomini e le donne da affrontare con incandescente urgenza.

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