Francesco d’Assisi riceve le stigmate, di Giotto

In Occidente il termine mistica ha da sempre assunto connotazioni disparate. Etimologicamente esso deriva dall’aggettivo greco mystikos, il quale ‒ come il sostantivo mystes: l’iniziato alle religioni misteriche ‒ fa riferimento al verbo myein, che significa chiudere la bocca e gli occhi di fronte al mysterion: al mistero/segreto proprio della dimensione riferibile al sacro/divino, all’ineffabile di cui non si può e non si deve parlare (specie con i non-iniziati) e che non è accessibile né ai sensi né alla ragione ma a cui il mystes può accostarsi tramite pratiche cultuali/rituali esoteriche.

Come puntualizza Francesco Zambon, non solo in ambito greco, ma pure in quello giudaico e latino, si ricorse alla terminologia misterica allo scopo di descrivere dottrine/conoscenze segrete di vario genere. “Fu tuttavia in epoca tardoantica che questa terminologia non solo diventò abituale in diverse correnti filosofiche e religiose (dal neoplatonismo allo stoicismo), ma cominciò ad essere usata per descrivere vere e proprie esperienze mistiche nel senso moderno della parola”.[1]

Nell’ambito specificamente cristiano, all’interno dei Vangeli sinottici, troviamo tre analoghe citazioni dei termini mistero-misteri,[2] allorché Gesù confida agli apostoli che a loro è dato conoscerli ‒ in riferimento al regno dei cieli ‒, mentre agli altri non è concesso. Il passo di Luca sembra sottolineare con maggior forza la differenza tra l’insegnamento esoterico ed essoterico del Cristo, giacché questi avrebbe affermato: “A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo con parabole, affinché vedendo non vedano e ascoltando non comprendano” (Lc 8,10).

Nelle Lettere paoline ‒ soprattutto nelle epistole ai Corinzi, agli Efesini e ai Colossesi ‒ abbondano i riferimenti a tali termini; ed un poco alla volta vari teologi cristiani utilizzano l’aggettivo mystikos per alludere al mistero divino che è stato svelato/rivelato dal Cristo. Ma con lo pseudo-Dionigi l’Areopagita si inizia a parlare di una certa qual specie d’esperienza mistica e d’unione mistica con Dio. Non a caso s’intitola Teologia mistica un trattatello significativo di tale autore, dove tra l’altro si parla dell’ascesa di Mosè sul monte Sinai per avvicinarsi al Signore. Ascesa/ascesi che comporta la presa di distanza da ogni pretesa di conoscenza noetica e che si conclude con una visione, la quale equivale altresì a una unione (l’henosis plotiniana) con Dio:

  Allora egli[3] si distacca da ciò che è visibile e da coloro che vedono, e penetra nella tenebra veramente mistica dell’ignoranza. Rimanendo in essa, chiude ogni percezione conoscitiva ed entra in Colui che è del tutto intoccabile ed invisibile: < allora > appartiene veramente a Colui che tutto trascende, senza essere più di nessuno, né di se stesso né di altri; fatta cessare ogni conoscenza, si unisce al principio del tutto sconosciuto secondo il meglio < delle sue capacità >, e proprio perché non conosce più nulla, conosce al di sopra dell’intelligenza.[4]

Però il passaggio dall’aggettivo al sostantivo rispetto al termine mistica avverrà molto più tardi. Secondo gli studi condotti da Michel de Certeau tale vocabolo sarà infatti utilizzato solo a patire dal secolo XVII. Tuttavia a lungo, sino a quasi il secolo scorso, questa parola verrà connotata da un’aura svalutativa/spregiativa. Ai mistici inoltre la Chiesa cattolica ha molto spesso guardato come minimo con sospetto ‒ si pensi solo alla condanna al rogo di Margherita Porete o al processo (e condanna) di Meister Eckhart da parte dell’Inquisizione ‒ per via della loro comune propensione a interpretare in modo non dogmatico la religione cristiana. Anche le varie Chiese protestanti, fino circa agli inizi del secolo XX, hanno guardato con diffidenza alla mistica. È solo nel Novecento dunque che la mistica viene presa in considerazione quale una valida modalità di espressione/concezione spirituale.

Ma il problema di definire esattamente in che consista la mistica ‒ in particolar modo quella cristiana ‒ rimane pur sempre un problema non certo di facile soluzione. Il dire che essa si riferisce a una sia pur peculiarissima esperienza del divino lascia comunque irrisolta tutta una serie di questioni, tra le quali la principale è cosa si intenda per la possibilità di esperire Dio: che significhi davvero per i mistici incontrare (unirsi/riunirsi) in qualche modo a Dio, e se si tratta del Dio riconducibile all’ambito del cristianesimo; giacché, ad esempio, nei confronti di Meister Eckhart è stata sollevata da taluni teologi la critica di veicolare attraverso le sue prediche una sorta d’ateismo. Si pensi anche solo alla ben nota affermazione eckhartiana, tratta dal Sermone 52 ‒ intitolato Beati pauperes spiritu, quia ipsorum est regnum coelorum ‒ in cui il grande mistico tedesco ardisce proferire: “prego Dio che mi liberi da Dio” (bite ich got, daz er mich quit mache gotes).

C’è poi il tema spinoso dei cosiddetti fenomeni mistici, consistenti in epifanie/apparizioni della divinità, in stati estatici, in locuzioni che proverrebbero da Cristo o dal Padre. Per non scordare la, da taluni autori chiamata, “mistica del sentimento”, riferibile spesso a noti personaggi femminili medioevali e così stigmatizzata da Marco Vannini, uno dei massimi esperti italiani della mistica occidentale:

Non intendiamo dunque per “mistica” la cosiddetta “mistica del sentimento” (e/o anche “mistica nuziale”), che, distinta da quella chiamata “dell’essenza” (o “speculativa”), permette di inserire nel genere mistica tutto il repertorio devozionale, estatico, visionario della pietà religiosa ‒ cattolica e non. (…) Dunque, in quanto la cosiddetta “mistica del sentimento” è appunto del sentimento, essa non ha a che fare con lo spirito, e non va perciò considerata mistica. Essa può interessare la psicologia, soprattutto a motivo di certi suoi aspetti di eccezionalità che la rendono stuzzicante per i cultori dell’erotismo mal digerito (e questo spiega in effetti l’attuale fiorire di indagini sulle “mistiche dell’eccesso), ma mescolarla col divino è cosa di cattivo gusto, anzi davvero ripugnante.[5]

Altro problema da non considerare marginale si riferisce allo spinoso binomio mistica-teologia. Semplificando alquanto potremmo dire che nel tentativo di formulare un discorso su Dio, i teologi si sono situati su due fronti contrapposti. Da un lato troviamo i fautori della teologia catafatica o affermativa, che attribuisce a Dio in massimo grado ‒ essendo il creatore d’ogni cosa ‒ gli attributi e/o le qualità positive connotanti creature e creato. Dall’altro lato i sostenitori della teologia apofatica o non-affermativa, che preferisce precisare piuttosto ciò che Dio non è. (Ad es. Dio non è un ente). Quindi l’unico possibile modo per parlare di Dio potrebbe essere di farlo per viam negationis, ponendosi Egli oltre ed essendo Altro rispetto ad ogni aspetto del creato. Nessuna affermazione positiva sulla divinità è perciò da proferire/preferire, almeno secondo i sostenitori della teologia che predilige l’apofasi e che è quella maggiormente utilizzata dai mistici cristiani. Interessante, a tale proposito è quanto scrive intorno a ciò lo pseudo-Dionigi l’Areopagita a conclusione della sua Teologia mistica:

  (…) diciamo che < la causa universale > non è né anima, né intelligenza, e non possiede né immaginazione, né opinione, né parola, né pensiero; che essa stessa non è né parola, né pensiero; e che non è oggetto né di discorso, né di pensiero. (…) A proposito di essa, non esistono né discorsi, né nomi, né conoscenza; non è né tenebra, né luce; né errore, né verità; non esistono affatto, a proposito di essa, né affermazioni, né negazioni: quando facciamo delle affermazioni o delle negazioni < a proposito delle realtà che vengono > dopo di essa, noi non l’affermiamo, né la neghiamo. In effetti, la causa perfetta ed unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione; e l’eccellenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al di sopra di tutto è superiore ad ogni negazione.[6]

  Ma se ogni discorso su Dio risulta problematico, anche parlare di come i mistici si relazionino con Lui lo è altrettanto. Da parte di molti autori si è sottolineato come la mistica sia prassi più che teoria; costituendo essa una qual sorta di vissuto rispetto al divino. Cosa ciò esattamente significhi è tuttavia parimenti ineffabile/indicibile. Avvertire la presenza di Dio è un altro modo di descrivere una tale modalità d’approccio con un Altro da sé che, al contempo è considerato presente nell’intimo/anima ed in ogni cosa; senza che questo comporti però alcun panteismo. Maria R. Del Genio, facendo riferimento a una nutrita serie di teologi, così precisa rispetto ai cosiddetti sensi mistici:

 La dottrina relativa ai sensi mistici risale, nella sua sistematizzazione, a Origene che parla dell’uomo come di un essere carnale e spirituale nello stesso tempo. Come esistono i sensi fisici, che fanno percepire le realtà materiali, così esistono i sensi mistici, che fanno percepire le realtà soprannaturali. Già Paolo parlava del buon odore di Cristo e Giovanni dice di aver “toccato” con le sue mani il Verbo della vita. (…) In oriente i Padri greci come Gregorio di Nissa ed Evagrio Pontico ne parlano nelle loro opere. In occidente ne trattano san Bernardo, Guglielmo di Sant-Thierry, ma soprattutto san Bonaventura che, rifacendosi al Cantico dei Cantici, analizza i sensi mistici più a livello esperienziale che speculativo.[7]

Ma per molti mistici cristiani ‒ tra i quali Eckhart e Silesius ‒ la meta non è tanto/solo percepire il divino ma giungere alla divinizzazione (theosis). Non per nulla San Basilio scrive che le anime che portano/accolgono lo Spirito Santo (pneumatofore) raggiungono: “la permanenza in Dio, la somiglianza con Dio, il più alto dei desideri: divenire Dio”.[8]

L’idea che sia possibile l’unione con Dio è riscontrabile pure in Massimo il Confessore, secondo il quale l’uomo è “parte di Dio” (moira theou). Tale prossimità è peraltro concepibile se si concorda con la Lettera ai Romani, e con la Lettera ai Galati di Paolo, nonché con la Prima lettera di Giovanni: testi in cui si ribadisce come gli uomini possano dirsi figli di Dio.

Infine un accenno al linguaggio dei mistici, che non solo è simbolico, metaforico e con accenti poetici, ma che al contempo ci appare spesso venato da contraddizioni e incoerenze, disseminato da ossimori e ambiguità, talvolta sin troppo paradossale e irrazionale. Ma forse solo di a-razionalità si tratta, di un dire che non teme di declinarsi oltre e/o in modo altro rispetto alla logica ordinaria. Si tratta quindi d’una discorsività che osa contravvenire al monito wittgensteiniano: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”;[9] e, ad onta d’ogni apofatismo, accenna al divino e alla sua esperienza egualmente/strenuamente.

***

Concludo con l’avvertire i lettori che nei prossimi interventi sul nostro blog CartaVetro analizzerò quattro esempi illustri di prassi e scrittura relative alla mistica d’orientamento cristiano, con rimando a diversi ambiti storici. Il primo farà riferimento agli ultimi due secoli dell’età antica, il secondo al basso medioevo, il terzo all’inizio dell’età moderna, e il quarto al Novecento.


[1] Citaz. tratta dall’Introduzione Generale di F. Zambon a: La mistica cristiana, Vol. I, Mondadori, Milano 2020, p. XV.

[2] Cfr. Mt 13,11 – Mc 4,11 – Lc 8,10.

[3] Ovviamente si tratta di Mosè.

[4] Citaz. tratta da: Ps. Dionigi l’Areopagita, Gerarchia celeste, Teologia mistica, Lettere, trad. di S. Lilla, Città Nuova Editrice, Roma 1986, p. 107.

[5]  M. Vannini, Storia della mistica occidentale, Le Lettere, Firenze 2018, pp. 14-15.

[6]  Ps. Dionigi l’Areopagita, Gerarchia celeste, Teologia mistica, Lettere, op. cit. pp. 112-113.

[7]  M. R. Del Genio, Breve storia della mistica cristiana, Àncora, Milano 2009, p.187.

[8]  Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, IX,23.

[9]  L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus,7.

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