Giunge puntuale il momento, in una certa fase dell’esistenza, di operare un bilancio, principio valido anche nel dominio della creazione artistica: con tale urgenza si sono venuti misurando, in tempi recenti, poeti quali il veneziano Pasquale Di Palmo (Breviario delle rovine. Poesie 1986-2021, Medusa 2021) o il polesano Marco Munaro (Un tempo nel tempo, Poesie 1983-2021, Ladolfi 2021); ora è la volta di Andrea Temporelli con il volume in oggetto, che non risponde unicamente a tale finalitĂ , visto che va considerato quale una tappa ulteriore nello sviluppo di un’intera poetica inaugurata dalla raccolta Il cielo di Marte (Einaudi 2005) e anche quale resa dei conti.
L’accento, fin dal titolo, viene posto sul piĂą inflazionato e insieme tradizionale dei temi, vale a dire l’amore, ma con una precisazione non trascurabile che estende enormemente il campo del poetabile senza pregiudiziali di sorta, ovvero a “tutto il resto”, da intendersi anche, crediamo, quale stella polare di riferimento in poesia: siamo sulla linea di Saba e del filone antinovecentesco caro alla linea lombarda, approdo cui si orientava in qualche misura anche l’ultimo Cappello nella sua poetica delle “parole povere”. Una scelta di campo antiretorica sin dal principio, si direbbe. NĂ© si tratta di una forzatura, dal momento che l’amore del poeta ha per oggetto, oltre agli affetti piĂą stretti, la lezione dei maestri che egli stesso s’è scelto quali compagni di strada, dall’ala protettiva di Rilke, alla sottile ironia di Gozzano, al Dante delle Rime, al Rimbaud poeta di sette anni, a Luzi espressamente citato nella lirica Due in un film (p. 59), al Munaro delle Falistre o di Berenice, e perfino ad un altro polesano atipico quale Gino Piva; altrettanti “padri” grazie ai quali è possibile riattingere le radici della “Terramadre” che nel nostro caso è anche la pianura veneta e il Polesine, con tutte le implicazioni che ciò comporta; e, insieme ai maestri, la poesia: “«PoichĂ© per lungo tempo ti ho aspettata / e vanamente alle solite vie, / ho deviato il percorso / ho visitato luoghi oltre le mura / giurando e spergiurando / di vincerti con le mie fantasie” (Diceria del poeta, p. 62), sempre confidando nel raro miracolo della comprensione altrui: “(Ma tu, sotto il tendone / della metafora, non pensi mai / all’ebbrezza di uscirne? / Cammina dritto / su questa fune allora, se ci riesci: / lĂ  dietro, sì, lĂ  dietro, c’è chi sa i tuoi abbandoni)” (Vertigine, p. 65). E ancora, a precisare l’identitĂ  dell’eterna fuggitiva: “Ma tu sarai per me la vita intera, / il soffio in cui la voce non arriva, / canzone vera” (3. Innominata, p. 68). Un’utopia, in apparenza, ma anche un miracolo quotidiano, possibile e reale quanto uno sbarco su Marte, pianeta/divinitĂ  che si converte per Temporelli in metafora della poesia come suggerisce anche l’esergo da Mandel ‘štam in apertura di volume e con un’eco dissimulata di Montale in quel “prato”: “Talvolta accade (pensa al primo uomo / su Marte) di trovarsi dentro a un angolo / dell’universo vergine e inondato / di luce (ora è un prato / o un posteggio o il cortile / stupefatto nel fango, / insomma un posto comune) […]” (Primo passo su Marte, p. 69).
Un ulteriore e fecondo intreccio risulta quello tra poesia e insegnamento, connubio che fa capolino piĂą volte in questi versi, sempre attenti anche all’universo della scuola, realtĂ  controversa che Temporelli conosce a fondo, per viverla in prima linea, come del resto tantissimi altri poeti con lui: “Ma per loro una pipa / resta sempre una pipa, non c’è niente / da capire, nessun / mistero, neanche un misero dettaglio / che incrini l’evidenza – / per esempio una lettera / fuori posto, una virgola che cambi / il senso di un discorso: / per ciò vivranno, sempre / beati tra i belati. Peggio: in questa / teoria vivranno sempre, persi / nella grazia dei quindici anni, belli / senza merito. Noi / però restiamo qui, / senza divertimento, a disquisire / sul modo di svegliarli” (Dissertazione breve sulla gioventĂą, p. 89), quando l’autore non scelga la strada di accreditare dignitĂ  lirica agli strafalcioni dei propri studenti: “ImparerĂ  / che scrivere col tempo non ha senso / c’è nello spazio quantissimo spazio / che i suoi sono soltanto scarabocchi / e favole anche i numeri” (Compito, p. 92).
Nonostante le apparenze contrarie, si tratta di un libro declinato al femminile dal momento che l’oggetto privilegiato e sempre sfuggente di quella ossessione amorosa che chiamiamo poesia è sempre e solo lei, la poesia appunto, dall’inizio alla fine: “Così per noi fedeli d’amore senz’amore / adesso scrivere / è pasqua in un aborto: liberare / il torsolo di morte / dal marmo del sudario” (Adesso scrivere, p. 14).
E tuttavia il libro è interamente attraversato da un altro rovello, quello del conflitto mai concluso nĂ© sanabile in via definitiva tra padri e figli: “Ti incido alla radice / dell’osso occipitale / il nome da tradire / e tramandare. Ho cura / e maestria in questo. // Dai seni della dura / madre attingo l’inchiostro. / Le rune della stirpe / scaveranno l’Atlante / fino al nervo spinale. // Ne leggerai a suo tempo / la trama, accarezzando / la nuca ancora sporca / dalla creta di Dio, / cedevole alla forza / delle tue dita, figlio” (Ti incido alla radice, p. 101).
Sul piano formale la silloge è articolata in nove sezioni all’interno delle quali l’autore mostra grande cura nella scelta dei titoli utilizzando, talora con una certa libertĂ , un lessico prezioso e i metri piĂą diversi: dalle quartine (Epoca, p. 115), a una raffinata canzone in sestine rimate alla maniera provenzale (Monologo del dittatore, pp. 113-114), alle ottave di endecasillabi alternati a settenari (La coda dell’occhio, p. 108), fino alla ripresa della forma poemetto in endecasillabi sciolti (Terramadre, pp. 49-56). Merita senz’altro una menzione la lirica Postilla per l’alieno che funge da congedo ed evoca atmosfere a metĂ  strada tra Kavafis, Auden e Omero: “Se nuovi draghi al tuo arrivo passeggiano / nella Baia di Halong e mammut avidi / masticano lapislazzuli e giade / del Taj Mahal; […] / […] / …nessuno mai saprĂ  / la tenerezza di Ettore che innalza / Scamandrio al cielo… / Ignaro riponi il quaderno / e lascia l’universo nella pace / di chi non sa nĂ© amore nĂ© bellezza” (p. 125-126).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarĂ  pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *