È arrivato in questi giorni un libretto con una dedica per me. Lo manda Giulia Perroni che venne al Festivaletteratura a Mantova diversi anni fa e che ho avuto il piacere di conoscere e l’onore di presentare. Mi scrive perché conosce il mio legame con la Sicilia e la sua straordinaria ricchezza di scrittura in poesia e in prosa.
Si tratta di un libro agile e incantevole, un poemetto, Cantastorie, edito da Edizioni Progetto Cultura, diviso in tre sezioni e dipanato prevalentemente in settenari che, ancora una volta, ha al centro la Sicilia. In questo caso un piccolo paese in cima ai Nebrodi, denominato proprio ‘perla dei Nebrodi’, Naso. A correre lungo le pagine è la memoria di una signora, evocata fin dalla copertina che riproduce la Dama con ventaglio di Gustav Klimt, elegantissima e distante.
D’altra parte la Sicilia è, come diceva Goethe, ‘la chiave di tutto’; senza vedere la Sicilia non si può conoscere l’Italia e Giulia Perroni già l’aveva mostrata nella sua storia e nella sua natura, con abbacinante virtù d’illuminazione e lunga ombra d’arcano nel libro Tre vulcani e la neve, edito da Manni nel 2012. Tutta la presenza della grande poesia e della grande prosa non è mai distante dai suoi versi, come non lo è la storia: Milazzo, il luogo di nascita, e Naso il paese della madre a cui Giulia bambina ritorna per ogni festa nella casa del nonno.
Da tempo trasferita a Roma, vive al Gianicolo, il quartiere caro a Pasolini, Caproni, Gadda e ad Attilio Bertolucci che scrisse la partecipata prefazione a La libertà negata (il primo volume di poesie di Giulia Perroni che uscì nel 1986 per i tipi del Ventaglio). A Roma ha fondato con il marito Luigi Celi, poeta e saggista, il circolo culturale Aleph a Trastevere.
Dall’esordio, su “Nuovi Argomenti” nel 1977, ad oggi, le raccolte poetiche sono molteplici:
La libertà negata, Il ventaglio, 1986.
L’altro, silloge poetica con cui vince il premio Montale per gli inediti nel 1991 e che esce nei 7 poeti del premio Montale, nel 1992, da Scheiwiller.
Nell’arco di un decennio escono da Campanotto Il grido e il canto, 1993, La musica e il nulla, 1996, La neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, dedicata all’amica Giorgia Stecher, Stelle in giardino, 204 haiku del 2002 e, infine, Dall’immobile tempo, 2004.
Vince il premio Cordici per la poesia mistica e religiosa nel 2006 e, nel 2009 esce Lo scoiattolo e l’ermellino, nelle Edizioni del Leone.
Poi La scommessa dell’infinito, edito da Passigli che raccoglie tutte le poesie dal 1986 al 2009, Tre vulcani e la neve, uscito per Manni nel 2012 e, nel 2015, ancora per Passigli, La tribù dell’eclisse.
Diverse sue liriche sono state musicate da musicisti dell’Accademia di Santa Cecilia e portate in tournèe e, in questo intreccio di musica e poesia, si deve a Giulia Perroni, alla sua lettura e alla sua gestione del teatro Cavalieri di Roma, la diffusione in Italia di Anima dell’acqua di Kikuo Takano nella versione della traduttrice, musicologa e soprano Jasuko Matsumoto. Della vicinanza all’opera di Takano sono testimoni le sue prove in forma di haiku e la sua attenzione al modo orientale nell’esprimere la poesia e la vicinanza tra conoscenza, esperienza e scrittura. La raccolta del 2002, Stelle in giardino, ci offre una gamma estesa di questi percorsi. E da qui è possibile introdurre uno dei temi che possiamo tentare di nominare, scegliendo tra i tantissimi presenti nella poesia di Giulia Perroni, il tema spirituale, o la ricerca e l’indugio su aspetti della vita e dell’esperienza quotidiana che hanno a che fare con la speranza, il sacro, l’attesa, l’alterità e spesso anche il faccia a faccia diretto con Dio:
Voglio o Signore
totalità di fame e di bellezza
norme leggiadre ai limiti del fango
dove l’occhio conciso le accarezza
lo sfarzo primigenio e ciò che serra
la mia vita alla morte…
Tra la tradizione occidentale e la grande cultura sapienziale d’Oriente, Giulia Perroni ci consegna una spiritualità in cui, come direbbe Maria Zambrano, “non è permesso eludere l’inferno”, bisogna anzi toccare le esperienze, sentirne la forza originaria come memoria passionis, prestare loro attenzione con tutto il tempo necessario al pensiero, perché avverta il transitare delle cose della vita e le tragga dal silenzio. Il ritmo con cui esse tornano in noi, risuonano, non può che essere un tempo musica, non come elaborazione estetica, ma come ritmo del cuore, intermittenze di silenzi e di riprese.
La musica e il nulla è il titolo di una delle raccolte di Giulia Perroni che guidano in questa direzione:
Non c’è forma più valida della poesia per questo esercizio dell’anima:
Io so che la poesia viene nel sonno
so che essa nasce agli angoli oltraggiosi
che conosce nei margini la foglia
il morire e il rinascere
la vita
La poesia abita chi racconta la nostalgia per gli spazi, l’angoscia e la rassegnazione per i limiti, l’intimità con tutte le forme possibili di realtà ed è qui che tocca il sacro e non solo perché la poesia originaria che ci è dato conoscere è il linguaggio sacro, ma soprattutto perché il limite che costringe e incessantemente induce a fare i conti con il non-finito, l’imperfetto, è anche inizio di Altro. Come dice Cristina Campo, nelle Lettere a Mita, “Il cammino della poesia è uno e non reversibile. …essa non è altra cosa dalla reverenza per il significato teologico del limite: il precetto di operare a somiglianza di Dio: dal Sinai al cespuglio ardente, dal Tabor a un pezzetto di Pane”.
E, contemporaneamente, un contatto con l’assoluto che si stabilisce nel vuoto di consolazioni, nel naufragio dei propri beni, nella perdita delle illusioni può generare un dolore grande. Lo si può contenere o sopportare solo accettando che le cose capitino, con il loro carico di libertà e, talora, di gioia, ospitando la fecondità dei possibili modi d’essere nelle cose. Si tratta di una vittoria sul tempo: un uscire progressivo dal tempo alienato per acquisire un tempo redento, liberato dalla malignità del giorno che fugge. Le ansietà e le preoccupazioni, anche le più concrete e motivate, quelle che sommergono l’anima, possono essere sottratte alla loro profanità immediata e perdere il loro carattere effimero e soffocante, sembra indicare Giulia Perroni, se vengono convertite in un esercizio dello spirito e gettate in qualche modo in Dio.
Pietra del laccio
Sangue del mistero
L’onniscienza dell’attimo affocato
Da quieta sua vertigine
etto su te la fronte e mi disseto
come l’alba maestosa che non chiede
ma genera il cammino
Mio viaggio di cui non so parlare
Mio viaggio
Impietoso e felice
Mio viaggio
Trascinato dal vento
Se tutta la creaturalità si esprime nel mondo in cui agiscono le leggi naturali e quelle stabilite dalla società, è necessario abbassarsi fino ad accettare le costrizioni che queste leggi comportano, ma l’aderenza all’insufficienza umana genera un movimento inverso che fa toccare il ‘soprannaturale’ e consente di avvertirne la grazia. L’ ‘impermanenza’ è la cifra di questo movimento che prende le mosse dalla riflessione orientale: una predisposizione alla lontananza che trasforma lo spazio in un allusivo esercizio sulla nostalgia, appello interiore alla perdita e richiamo di paesaggi, memorie, immagini di altre storie e altri tempi, oppure tensione di natura mistica, di una modalità della vicinanza a Dio che, aggirando il logos, inventa modi e parole che attingono alle visioni.
La tensione spirituale, declinata su amicizia, amore, alterità si sposta sulla onnipresente attenzione al mondo femminile. Ad ogni pagina del corpus poetico di Giulia Perroni si infittiscono i riferimenti nell’uso della poesia come voce di civiltà e in tutte le raccolte è presente l’attenzione commossa alle storie delle donne: quelle del mito, Medea, Cassandra, archetipi assoluti, le donne delle Scritture, Eva, Maria, Marta, le amiche poete come Giorgia Stecher, le poete arabe, le maestre del passato, Giuliana di Norwich e la sua mistica della compassione, Ipazia, la scienziata e le donne di oggi come Hina, la giovane pachistana uccisa dal padre. Un elenco di storie dispari tra le quali corre il filo di una differenza di genere che indica la specificità del loro agire. È così anche in Cantastorie.
In una delle moltissime recensioni all’opera di Perroni si parla di “un femminile che nell’opera è elemento autonomamente attivo come valore, come sfida ontologica, come principio di realtà collegato all’invenzione linguistica”.
Tanto racconto cela dietro le immagini un sapere pieno delle vicende delle donne, un sapere svelato nonostante la “teologia sia maschio” e si inventi che alla cena ultima non erano presenti le donne.
A conferma arriva questo prezioso libretto, Cantastorie, con la sua voce limpida a raccontare di zia Mariannina e della Signora bellissima, “la regina e la fata di una casa in letizia”.
Sarebbe straordinario udire questi versi dalla voce di Giulia, lettrice impareggiabile della poesia e innamorata della Sicilia della sua infanzia.
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