È un nome, Karamagò, che suona come un tamburo dalle diverse voci-battute, un’intera foresta di suoni che variano con la diversa pressione del colpo, con lo sfumare delle dita sui diversi punti della pelle. Suono animale, cioè vivo, che ti fa eco dentro la carne, perché è ancora carne che suona che canta.
Karamagò mi suona e mi canta. Anche se non l’ho respirato da vicino, neanche visto da vicino. Ma un poco, lo stesso, l’ho conosciuto, su quel nome che un’amica trasportava dal laboratorio fino a me, in racconti intensissimi da ascoltare: di ragazzi neri appena arrivati dai barconi, di alcuni bravi italiani che gli si facevano incontro, di progetti, di entusiasmi, di speranze; anche di amarezze, delusioni, dolori.
Lui, mi aveva colpito il suo potente nome sonoro, che si coniugava invece con una maniera gentile e garbata di porsi, sempre in ordine, preciso e attento nel suo lavoro, creativo come i suoi compagni, un gruppo di dodici o tredici, qualche volta di più, che come dita di una medesima mano avevano dato vita a un laboratorio di sartoria che in poco tempo si era fatto apprezzare dagli immediati dintorni e più in là, fino a ricevere tante richieste da non poterle più soddisfare. Sì, perché, nonostante la velocità con cui avevano acquisito dalla ‘maestra’ che li coordinava le tecniche del taglio, del montaggio, della cucitura a macchina – le macchina da cucire regalate da gente qualunque e dalla parrocchia che aveva messo a disposizione anche i locali –, nonostante l’originalità dei modelli che in fogge europee intarsiavano colori e brani d’Africa, nonostante le vendite a totale esaurimento – le poche volte che potevano gestire una bancarella in qualche manifestazione pubblica –, loro, appena arrivati da odissee inenarrabili – e che, con quel medesimo strano pudore, che fece tacere per tanto tempo i sopravvissuti dei campi di concentramento, loro non si lasciavano uscire di bocca, se non per minuscoli strappi –; loro, in possesso a malapena di cento parole italiane; loro, in attesa di permesso di soggiorno, futuribile ai tempi del ‘poidopopoi’; loro sempre precari nel dove abitare, come mangiare (CHI!? CHI?! osa affermare che ognuno di loro aveva a disposizione 40 euro al giorno? CHI?! Si mettevano insieme per comprare balle di ali di pollo cinesi surgelate e riso, ecco i loro banchetti!!!); be’, loro non potevano far fronte ai canoni legali e burocratici italiani che richiedevano requisiti, disponibilità ed impegni che loro non avevano. E qui si tace di forse non troppo secondarie ostilità per timori concorrenziali, prevenzioni razziste, rifiuti del diverso. Trovarono tutti altri lavori, non proprio creativi e di soddisfazione come la sartoria, ma almeno in grado di ‘regolarizzarli’ agli occhi della società italiana. Per fortuna anche aiutati da ‘giusti’ di oggi ad avere un alloggio, un’operazione per rimettere un poco a posto una gamba chissaccome disastrata nel viaggio d’arrivo, un corso formativo professionale, magari anche una patente per un lavoro d’autista.
Karamagò, come tanti in Costa d’Avorio, aveva avuto la TBC da piccolo, che non se ne va, ma resta latente nell’organismo, e poi il viaggio infernale per arrivare e poi qui un lavoro molto pesante: avrebbe dovuto cercare di farsi vedere da un chirurgo cardiologico per una pericardite silente, perché il suo cuore tambureggiava ormai al 50%. Ma poi era subentrato il Covid, insomma ha dovuto rimandare e tenere duro. Sua moglie, con altrettanta odissea da barconi come lui, aveva raggiunto il fratello in Francia; avevano una bimba, che era ormai alle elementari. Là, dopo le dovute vicissitudini, lei aveva un permesso di soggiorno senza limiti; se lo avesse raggiunto in Italia, invece, avrebbe rischiato il rimpatrio. Così lui lavorava e le mandava tutto quello che poteva, intanto che aspettavano il meglio.
Ieri, 9 marzo 2024, Karamagò è morto. In un importante ospedale di Bologna, dopo che Milano e altre città lo avevano rifiutato perché ormai troppo grave. Assistito, si dice, con grande attenzione e cura dagli operatori del reparto, seguito con affetto dagli amici neri e bianchi che gli volevano bene. Operato già all’estremo, non ce l’ha fatta. Moglie e figlia, l’hanno visto per l’ultima volta solo via web. I suoi famigliari in Costa d’Avorio forse neanche.
No, non è una tragedia originale. Poteva succedere a tanti. Anche bianchi.
Allora perché, alla notizia che il mio grantamburo non suonava più, mi sono sentita così male e, soprattutto, così in colpa?
Lo stesso dell’altra sera, quando il telegiornale ha detto del ragazzo che, salvato dal naufragio del barcone, è morto perché, per sbarcarlo in un ospedale sicuro,ci volevano ancora quattro giorni di navigazione. Da morto l’hanno potuto sbarcare subito. Un fratello che lo aspettava (in Germania?, non ricordo), è venuto a identificarlo. Ma già non se ne parla più. Anche questa è una tragedia non originale. Interessa di più seguire le trasferte elettorali in Abruzzo. E invece io vorrei sapere se aveva una squadra di calcio preferita, se aveva una morosa da qualche parte, una madre, se gli piaceva il pesce.
E la bimba che al cellulare chiedeva aiuto perché le bombardavano la macchina su cui stava scappando da un qui di Gaza per un po’piùinlà di Gaza? Un po’ di clamore per due giorni e poi silenzio. Anche lei poco originale come tragedia, se sulle oltre trentamila vittime collaterali della guerra israelo-palestinese, la percentuale di bimbi è altissima. Ma a me ruga (vel: fa le rughe, preme, scava, insiste) la nonrisposta a: chi era?, come si chiamava la sua bambola?, ne aveva una? E suo papà in fuga con lei era un terrorista di Hamas, un fedayyin anche lui, o un povero cristo qualsiasi?
Dovrebbero fare dei documentari apposta, come quelli sulle reti culturali che dicono tutto di un cantante, uno scrittore, un fotografo, ecc. Del genere:
Tutto quello che non sapete di Karamagò, per poterlo piangere di cuore. Non gli piacevano le ali di pollo cinesi. Era un uomo. E l’abbiamo perduto.
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Grazie Milena,i tuoi scritti così appassionati e sinceri invitano sicuramente a meditare…
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