Foto di Tumisu da Pixabay

3- TEMPO IN FUGA

Questo nostro tempo è di cose che si sgretolano, effimere, velocissime, sempre ultime: ultima moda, ultimo grido, ultima versione di quel software, ultima occasione per il grande affare, ultimo esemplare di una specie in estinzione, ultimo modello, ultima neve sui nostri inverni, ultimo capolista dei best-seller,  ultime parvenze di quattro stagioni, ultima notizia, ultime spiagge, ultima Venezia, ultimo sguardo alla strage-x prima della prossima incalzante strage-y… Il consumismo, oltre a sprecare, ci ha insegnato a restare immobili e passivi in mezzo a un continuo tsunami che travolge tutto in pochi istanti, impedisce di trovarsi bene, di affezionarsi a qualcosa, di guardare meglio, di conoscere più a fondo, sia pure un cellulare o un naufragio di barconi o un romanzo. Come i magnifici replicanti di Blade Runner, tutto ha la sua data di scadenza, tutto è effimero. Se consumare è ormai il bisogno primario da tempo, ‘in fretta’ è la specifica della nostra attualità. Finire presto è l’aspettativa per tutto quanto ci riguarda. Dal tragitto lavoro-casa, al tempo d’utilizzo del televisore o del contatore del gas, alla commozione per il centotrentaduesimo femminicidio dell’anno, alla corsa per la presentazione dell’ultima opera edita, che un ritardo relegherebbe in un passato da macero, come le opere precedenti. [Mi si perdoni  l’evidente conflitto d’interessi, N.D.R. ] Anche per cose che hanno millenni alle spalle, come i ghiacciai, gli ulivi, i mari, le api, si contano gli anni, i giorni. Anche noi, truccati da immortali con elisir estetici, moriamo in fretta, moriamo presto, mummificati nell’assenza di vero desiderio, infecondi, drogati. Assenti.

E la memoria, ah! la memoria…

Oggi, che la soglia di morte biologica si è allontanata di parecchi anni, viviamo in tanti lo stretto contatto con le malattie degenerative della mente nei nostri anziani, ottuagenari, novantenni o centenari che siano. Ma ci tocca anche la frequente occorrenza dell’Alzheimer, spesso in persone ancora giovani, appena varcata la maturità. Comunque una bomba, piombata a squarciare la nostra ordinaria quotidianità di comuni mortali, figlie e figli, sorelle fratelli, mogli mariti, amiche amici di cari in caduta verticale verso l’oblio di sé.

Senza competenze psicoscientifiche, senza conoscenze bio-neurologiche, senza filosofemi più o meno letterari, eccoci a toccare con mano come la memoria di sé sia ben oltre un cumulo regresso di eventi più o meno falsificabile, più o meno rimosso, ben oltre una delle funzioni del cervello che siamo riusciti ad innestare nei computer, ben oltre il pathos di un punto d’osservazione letterario o di un esperire il mondo emozionalmente. Testimoni, noi, dell’attenuarsi, del tarlarsi, del venir meno inesorabile, prima della cosiddetta memoria a breve,  poi sempre più indietro nel passato, fino a cancellarla quasi completamente, la memoria di sé, e l’‘io’ che riempiva. Nel perderli a poco a poco, arriviamo a conoscere come la memoria sia  necessaria per la consapevole presenza a sé. Eppure non sempre si cancella del tutto quella che, senza saperne di più, chiamiamo coscienza o autocoscienza. O almeno, anche quando lo sembra, annichilita, in stati apparentemente incoscienti, sappiamo che non lo sappiamo. Si tratta di un’altra situazione, ma non ho mai smesso di pensarci: la mia amica Loretta, intubata come un’astronauta nelle sue ultime ore, ormai devastata dal tumore nel cervello, quando dicevano che si poteva piangere perché lei ormai non c’era più ad accorgersene, ha stretto nella sua la mia mano, riconoscendola, e con una forza che non era un riflesso automatico.(Guai a chi pensa subito, il mio, uno schieramento a favore dell’accanimento terapeutico!)Mi sono convinta che la coscienza di sé, anche nelle forme più pesanti di demenza, non venga mai meno completamente: magari trasferita a sofferenze urlate o gesticolate senza sosta, magari dilatata in assurde (per noi) direzioni allucinate, magari trasgredita ad altre identità adiacenti, magari affievolita alla sola percezione del fiato, a un filo di voce canterina, come mia mamma. Chi conosce bene la persona smemore, si accorge spesso che c’è ancora un ‘io’ e il filo sottilissimo con la sua storia-memoria, a brandelli, a sforamenti, a echi. Ancora un poco. Quello che non c’è più è l’uso volontario e consapevole di sé al fine di sé. Alla direzione, alla decisione di sé. Al bene di sé.

Ma la memoria eppure…

Anche se non è mai venuta meno in letteratura la caccia all’‘io’ e un certo che di sufficienza verso le opere un po’ troppo autobiografiche, mai come oggi la memoria è un filone superfrequentato. Biografie e lavori monografici su personaggi ed eventi  storici, sociali o di cronaca, se ne sono sempre scritti, però oggi non solo si moltiplicano quelli su titoli classici già ampiamente trattati, magari per mettere in luce particolari finora taciuti per pudori vari o mancanza di informazioni, ma assurgono alla necessità della documentazione capillare anche personaggi e fatti generalmente considerati minori, se non minimi, come persone o situazioni ritenute fino a pochi decenni fa marginali rispetto ai primari della storia, della cronaca, dell’arte, ecc. Se l’importanza crescente della microstoria e l’interesse per una narrazione dell’umanità che contempli anche i qualunque, gli ignoti, gli innominati possono essere tra le motivazioni di questa diffusione, resta comunque un fenomeno abbastanza vasto e complesso da indurre a riflessioni. Per fare  i primi esempi che mi affiorano alla mente: le biografie e le autobiografie di protagonisti del cinema, della musica, dell’arte in genere –maggiori certo, ma anche minori o anche semplici gregari, portaborse, autisti, ecc. – si manifestano quasi quotidianamente sugli scaffali delle librerie; rivisitazioni di stragi, delitti, complotti, disastri, personaggi politici – anch’essi corredati di testimonianze di cuoche, paggetti, vicini di casa, fotografi, tate, ecc. –; figure dimenticate dalla ‘grande storia’ – tante donne! – riemergono con qualità e ruoli inaspettati, capaci a volte di ribaltare canoni d’acciaio. Ma non solo: pochi o tanti, trovano comunque lettori, innescano spazi di ampliamento – documentari, serial televisivi, dibattiti, ecc. –, entrano a volte anche nel simbolico sociale. Vanno moltiplicandosi i diari, le memorie di gente comune, magari da imparare a scrivere in corsi e seminari appositi, oppure sollecitate da persone raccoglitrici che s’incaricano degli aspetti più tecnici dei progetti, o che pazientemente trascrivono quanto vergato su dei muri o su un lenzuolo. E nascono e durano nel tempo musei e istituzioni preposti a conservare diari, quaderni delle elementari, testimonianze di tempi e uomini di un territorio; oltre che luoghi di raccolta di tutto quanto, cianfrusaglie comprese, un qualche gran personaggio ha toccato e usato nella sua vita: dal notes alla caffettiera alle ciabatte. Dimostrando che, oltre alle sue grandezze, mangiava, dormiva e andava di corpo. Sia chiaro che a me tutto questo piace. Molto. Mi sembra, o lo spero soltanto, che dietro ci sia, molto sotteso e molto inconsapevole, un nuovo senso dell’importanza di ogni singola vita della specie nella specie e per la specie, eclatante o no che sia o sia stata nel percorso ufficialmente ricostruito della specie. Il Napoleone a cui “due secoli (…)/ sommessi a lui si volsero,/ come aspettando il fato”, dice Manzoni, e la signora della ‘pasta fresca’ che ha scritto in otto quaderni la sua vita, si trovano uguali nella catena dell’esistere, ma, dico io, anche nell’importanza, nella necessità perfino, dell’esistere dentro la specie. Magari è così che tutto questo dire e raccomandare la relazione, il rapporto, la connessione tra ‘io’ e ‘tu’, il plurale, il ‘noi’, viene diffondendosi e innestandosi pian piano, a mozziconi, tra la gente, nel simbolico, nella weltanschauung – quanto mi piace piantar qui questo parolone! Alla faccia di tutti i neorazzismi, neonazionalismi, neoegotismi, neoegoismi, neosolipsismi che ho appena finito di denunciare.

Da dove questo interesse? Ha a che fare certamente col difficile momento di trasformazione che il mondo sta vivendo, ma non mi va di darlo come causa netta, determinata all’oggi. C’è altro.

C’È ALTRO…

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