Foto di ANDRI TEGAR MAHARDIKA da Pixabay

Sembra esserci – nel fondo del mondo – un cerchio di ferro e di fuoco che, a tratti, ma inesorabilmente, riaffiora tagliando vite come fuscelli, imponendo la lugubre contabilità degli orrori e delle rivendicazioni, sconvolgendo equilibri, travolgendo famiglie e comunità. La guerra, in questo scorcio di secolo, è tornata – anche nei luoghi più vicini a noi – a imporre la sua oscena grammatica e le sue urgenze: tutto pare di nuovo girare dentro le nuove mappe, quelle dei piani di attacco o difesa. Le carte militari disegnano il nuovo mondo e la logica stringente del posizionamento amico/nemico, noi/loro assurge al rango di sola razionalità possibile definendo e imponendo la sola visione possibile della realtà. Le parole vengono arruolate così come, da sempre, molti – non tutti, ma tanti – provano a militarizzare anche il credo religioso. Una ferrea dimensione del presente presidia tutti i possibili discorsi: non c’è un prima o un dopo. Solo l’impellenza di far agire le ragioni delle armi, di regolare i conti, di stabilire, con la forza delle conquiste, il nuovo catalogo di torti e ragioni. Eppure, nonostante una terribile ed incomprensibile amnesia, oggi dovrebbe essere chiaro che non c’è una meccanica implacabile nei rapporti tra stati e popoli, che porta alla guerra come unico, definito e inesorabile esito. La guerra, da sempre, è frutto di scelte, di calcoli, di convenienze e di potere: non è una catastrofe naturale ma storica e, perciò, umana. Da questa radice occorre ripartire per poter, provare almeno, ad indicare un diverso orizzonte, un altro ordine dei discorsi. Ordine e orizzonti che, dopo due guerre mondiali, nel secolo scorso, sono state elaborati e suggellati in norme di diritto internazionale, in carte di valori, in proclamazioni solenni. Nei tanti conflitti, quelli dimenticati e quelli che riempiono, ora, giornali, social e televisioni, viene consumata, anche, la sconfitta di questa idea di umanità, della sua riconoscibilità e del suo valore. Non possiamo, quindi, non chiederci, ora, quanto vale quella faticosa, fragile, preziosa costruzione politica, giuridica e culturale che ha consegnato al mondo una nuova visione e una nuova possibilità. La risposta, ora, è che vale tanto quanto noi la facciamo valere nei nostri discorsi quotidiani, nei rapporti, nella scelta delle soluzioni ai problemi, nella ricerca di strumenti efficaci per ridurre le tante, troppe, povertà e diseguaglianze, nel modo in cui stiamo, nello stesso spazio, storico, geografico e sociale, con gli altri.  Tutte le norme, tutte le dichiarazioni di valori hanno davvero importanza se noi li facciamo diventare parte dei nostri breviari quotidiani, mappe di itinerari di vita e di percorsi culturali e politici. Da qui discende, dovrebbe discendere, come conseguenza che la pace è una e indivisibile e, in quanto tale, per tutti. Non c’è una pace buona per noi che, per fortuna, viviamo in Europa, e una per i popoli precipitati nelle guerre, non c’è una pace come rifugio, una specie di comfort zone riservata ai fortunati nati nella parte giusta, e una come disperata aspirazione per generazioni che hanno vissuto solo dentro l’inferno di conflitti e violenze. Non c’è una pace per chi muore e per chi osserva morire. Se la pace è la sola condizione per realizzare quell’idea di umanità sancita nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la più avanzata frontiera del pensiero su questo fondativo tema dell’esistenza degli individui e delle comunità, allora fare uso quotidiano di quei princìpi è compito di ognuno e di tutti. Fare la pace, tessere relazioni di pace, costruire ponti, spazi per far vivere la pace e in pace è affare di tutti, tutti i giorni. Se la pace viene vissuta come parte fondante di una condizione umana, come una per tutti, allora, diventa, nelle mani delle persone, anche di quelle che non hanno funzioni e ruoli istituzionali, una quotidiana, concreta, pratica di vita e di relazione. Ingenuità, pie intenzioni, utopie? Forse, ma – per fare due soli esempi fra i tanti possibili – anche immaginare una Europa unita, una dichiarazione dei diritti valida per tutti sono stati, prima di diventare processi politici, atti, istituzioni, norme, ingenuità, utopie, piccole o grandi follie di un pensiero considerato astratto, non realistico. La pace è una parola nuda, disarmata, che può apparire incongrua e fragile di fronte alla compattezza delle macchine da guerra, fuori posto al cospetto degli eserciti e relegata nell’angolo delle buone intenzioni, buone per il domani, non per l’oggi. Ma, se la pace cammina dentro i passi degli uomini e delle donne che hanno scelto di farne il proprio luogo, l’unico in cui la vita può essere messa a dimora, allora potrà fare un cammino davvero molto lungo. Per quanto i venti di odio possano essere forti, per quanto larghe possano essere le distese di corpi che segnano piantagioni di odio, alla fine di tutte le analisi geopolitiche si vedrà che l’opzione più realistica è quella che sembra più utopistica. Per questo le parole e i gesti di Aldo Capitini, Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, e tante e tanti altri, sono, a ben guardare, le azioni e le idee più realistiche e lungimiranti, quelle che offrono vere e praticabili soluzioni e non si rassegnano all’estensione dei problemi sui corpi uccisi di donne, uomini e bambini. La pace è non solo politicamente realistica, possibile e necessaria, è anche, per parafrasare un famoso verso di Bertolt Brecht, la semplicità difficile a farsi. Ma, proprio perché difficile, necessita del contributo di tutti perché è la sola semplicità capace di accogliere la complessità della vita, delle sue declinazioni e delle sue diversità.

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