La nuova opera di Maurizio Casagrande rivela una fondamentale svolta rispetto alla sua precedente produzione. Restano fermi i cardini principali della sua identità poetica: l’espressione dialettale, l’intensità costante nel riflettere, verso nel verso, dentro il divenire della propria creazione poetica, la tensione del cordone ombelicale con il proprio territorio e con le proprie radici biologiche, in particolare madre e padre, non ultimo il riconoscimento di figure magistrali verso cui mantenere il riferimento e il confronto formativo.

Ciò che Casagrande raggiunge qui, in modo dirompente, è l’apertura ossigenata della sua poesia, non solo da un punto di vista geografico spostando il punto sorgivo del canto a Asmara, ma dell’intero paesaggio: esistenziale sociale politico. Rovescia la visione del tappeto e canta l’esistenza dall’altra parte del mondo. Crea la sua voce tra il plurale degli umili, degli ultimi, degli invisibili.  La crea non per un’acrobazia letteraria ma perché lì ha vissuto lì ha respirato lì è divenuto, magari bestemmiando, uomo nuovo, o meglio rinnovato, di sé stesso e della sua poesia.

È l’Eritrea bellissima e tragica, è l’insegnante poeta all’estero, è l’esule che esce dalla sua fonda, incistata, lacerazione interiore per connettersi all’emorragia degli altri esseri umani, non per sentimentalismo ma per umana condivisione. Ecco perché la poesia di Maurizio Casagrande si ossigena, fiorisce nella sua originale ruvidezza linguistica.

L’opera diventa poema. Quasi epico. Felice l’intuizione di trascrivere il dialetto con passo prosastico, senza a capo, senza punteggiature. Dall’altra parte della pagina, il volto molto lavorato del dialetto, dentro cui attenzione alla musica, al corpo, al vocabolario, al ritmo alternato tra lentezza dilatante e velocità sintetica. Felice la scelta editoriale di collocare il titolo specularmente nel margine sinistro e destro delle due pagine.

Se ne può fare una riduzione teatrale. Una voce lirica piantata al centro del mondo che riparte dal fondo dell’esistenza, propria e di tutti, dal fondo delle povertà ingiustamente protratte.

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