
Diciamolo subito: la fine dei bombardamenti, della lunga sequenza di morte su Gaza e il ritorno degli ostaggi israeliani sono tutte buone, anzi ottime notizie. Aggiungiamo, mentre accadimenti tragici di vario segno, dalle esecuzioni operate da Hamas contro palestinesi ai gazawi uccisi, ancora, dall’esercito israeliano, dal blocco dei rifornimenti di cibo alle prime, vistose criticitĂ , che speriamo, ardentemente speriamo, che davvero le armi, di ogni tipo e su ogni fronte, tacciano. Dopo un grande sospiro di sollievo bisogna però riportare lo sguardo a terra, su quella terra, e cercare di capire cosa è successo e cosa può succedere. La gran parte degli analisti -a parte i cantori in servizio permanente di Trump e dei suoi amici, nei governi e nei giornali che usano parole come corpi contundenti, senza misura e senza decenza- hanno subito sottolineato che il tanto sbandierato Piano di Pace in 20 punti è una scatola vuota, che si tratta di una tregua e che la pace è, purtroppo, ancora molto lontana. Cerchiamo, allora, di mettere in fila gli elementi possibili e proviamo a vedere che disegno viene fuori. Per comprendere se ci sarĂ davvero la pace occorre capire che tregua è questa e come ci si è arrivati, dopo un genocidio lungo 735 giorni, 70.000 morti di cui 20.000 bambini. PerchĂ© Trump, dopo aver assicurato copertura militare e politica al governo israeliano a cui ha fornito – come lui stesso ha rivendicato nel discorso alla Knesset il 13 ottobre – ogni tipo di arma e aver sostenuto tutte le azioni dell’esercito israeliano a Gaza, in Libano, in Siria e in Iran ha impresso un’accelerazione che ha portato, ed è tanto di fronte all’orrore dello sterminio di un popolo, al cessate il fuoco? PerchĂ© Netanyahu, che aveva respinto, nello scorso mese di settembre, una proposta di tregua, accettata da Hamas, con la motivazione che “doveva finire il lavoro” ora invece l’ha accolta? Secondo molti, il punto di svolta è stata la decisione del premier israeliano di lanciare missili sulla capitale del Qatar, il 9 settembre, con l’obiettivo di uccidere la delegazione di Hamas presente a Doha per cercare di negoziare una tregua. Questa è certamente una delle ragioni, ma non la sola. In situazioni così complesse, gli intrecci di interessi, convenienze, obiettivi – dichiarati e no – costituiscono una particolare e sotterranea geografia che non sempre corrisponde alle mappe emerse della geopolitica.
Allora, continuando a mettere in fila gli elementi disponibili, aggiungiamo che, nonostante i contorcimenti lessicali, le provocazioni e gli isterici tentativi di minimizzazione, l’onda enorme delle piazze, la spinta possente della partecipazione dei cittadini, in Europa e nel mondo, ha introdotto, nella balbettante pantomima dei rifiuti di prendere chiare posizioni, un nuovo, ed imprevisto, fattore di squilibrio degli assetti che hanno retto complicitĂ , ignavia e miserie della politica, dell’informazione e dell’etica pubblica. La forza dell’indignazione, della protesta, del rifiuto di tacere ha contribuito a rompere la crosta di un negazionismo crudele e cinico, rovesciato sulle vittime palestinesi di Gaza, meritevoli al piĂą, dello status di vittime di un genere minore (emergenza umanitaria),non degne di essere ascritte nella categoria, umana prima che storica, giuridica e politica, del genocidio. La missione della Global Sumud Flotilla, ha impresso una svolta a questa lotta, rendendo ancora piĂą evidente la violazione del diritto internazionale, la condizione disperata della popolazione di Gaza, l’abuso quotidiano della forza di un esercito contro folle di persone sbattute come stracci contro il muro della fame, della morte, dell’umiliazione. Questo movimento ha portato 157 Paesi su 193 componenti dell’Assemblea delle Nazioni Unite, al riconoscimento dello Stato di Palestina con tutte le conseguenze che ciò ha provocato nella trama delle relazioni internazionali e, nei Paesi democratici, nelle interazioni fra governi e pubbliche opinioni. A questo punto l’opzione israeliana di “finire il lavoro” è apparsa non piĂą sostenibile, ma dovremmo dire meglio, non piĂą utile, a Trump e agli “immobiliaristi della pace” che hanno visto rovesciarsi in criticitĂ quello che finora era stata una grande opportunitĂ . Solo Trump, che come ha piĂą volte rivendicato, ha sorretto Netanyahu e la sua strategia di cacciare i palestinesi da Gaza per farne una sorta di Las Vegas dentro la “Grande Israele”, poteva costringere Netanyahu e Hamas alla tregua. Come in tanti hanno scritto nei giornali italiani ed europei, la politica del bastone e della carota con Israele e le minacce ad Hamas, hanno funzionato. Ripetiamolo: questo è un bene enorme per i palestinesi. Solo nella pace si può immaginare un futuro. E, ripetiamo, anche, la condanna, totale dell’attacco terroristico del 7 ottobre del 2023, operato da Hamas. Ma, se queste sono le principali ragioni, dette o taciute ma rinvenibili nella matassa degli avvenimenti, della tregua, a che pace essa prelude? A questo proposito può essere “illuminante” il discorso che Donald Trump ha tenuto alla Knesset il 13 ottobre e la coreografia, con le sue gerarchie e i suoi simboli, della convention tenutasi a Sharm el-Scheikh. Il discorso di Trump, in particolare, un concentrato mai visto di superficialitĂ , di autocelebrazione e arroganza, andrebbe stampato, diffuso, letto e meditato per capire la logica da “comitato aziendale” e la psicologia da businessman dell’attuale inquilino della Casa Bianca; elementi che concorrono a definire, una parte di quello che usa definirsi come “lo spirito del tempo” e modellano la natura di quella pace promessa. Discorso chiuso, ricordiamolo anche a futura memoria, dalla “mirabile” frase: ‹‹Champagne e sigari, alla fine chi se ne frega!›› Al compiacimento per l’uso israeliano delle “meravigliose” armi americane – ‹‹Bibi, hai fatto un ottimo lavoro›› -, all’annuncio di una “etĂ dell’oro” che dopo l’America arriverĂ in Medio Oriente portando grande prosperitĂ , ha fatto da contraltare l’assoluto silenzio sulle vittime palestinesi e sui nodi non sciolti della questione israelo-palestinese che restano, purtroppo, tutti, a presidiare un futuro molto incerto.
La cosiddetta “pace” che si intravede tra il fumo della retorica e le celebrazioni del “grande capo”, ha i contorni inquietanti di un nuovo e tracotante colonialismo, diretta emanazione della forza come nuovo, esclusivo regolatore di conflitti e di interessi. Nasce così un “piano di pace” denominato “Pace Eterna” – ogni commento è superfluo – elaborato e discusso senza neanche il minimo coinvolgimento dei palestinesi, ridotti a comparse, privi di parola e di diritti. Si torna, in edizione riveduta e aggiornata, all’idea di un “protettorato”, guidato da un board internazionale, che dovrĂ gestire gli affari della ricostruzione di Gaza – i fiumi di denaro promessi da Trump e dalle monarchie del Golfo – escludendo ogni rappresentanza dei palestinesi. Si profila una separazione definitiva tra Gaza, avviata verso il “magnifico e prospero” destino di un clone di Dubai, e la Cisgiordania lasciata alla mercĂ© dell’avanzata dei coloni israeliani. Tutto il resto, dalla creazione delle effettive possibilitĂ per i palestinesi di autodeterminarsi -come ogni altro popolo-, creando il loro stato, scegliendo la propria classe dirigente e il proprio governo alla strutturazione della forza internazionale di stabilizzazione, dalla mancata indicazione sui tempi del ritiro dell’esercito israeliano da Gaza alla programmazione della fase di transizione, rimane un magma incandescente e indefinito che continua a bruciare sotto lo strato, fin troppo sottile, della tregua. Ma qui vi sono le questioni determinanti per ogni possibile assetto futuro: non metterci le mani può evitare ustioni, ma non permette di costruire nessuna vera e stabile soluzione al conflitto. Il nodo vero è costituito dall’intreccio fra la nascita di un vero stato palestinese indipendente e i territori occupati illegalmente dai coloni israeliani. La soluzione “due popoli due stati” per quanto possa ora apparire compromessa e di difficile realizzazione rimane l’unica prospettiva realistica e, d’altra parte, non sono finora emerse alternative a questa ipotesi. Ma non a caso questo tema non è stato affrontato; farlo comporta cambiamenti profondi dell’attuale situazione e la necessitĂ di operare scelte che revochino decisioni di segno contrario, assunte e ribadite anche in questi giorni, dopo l’avvio della tregua. Il 23 luglio 2025, la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato una mozione che impegna il governo a procedere all’annessione della Samaria e Giudea, secondo il lessico biblico usato dalle destre israeliane, cioè della Cisgiordania, occupata illegalmente da Israele dal 1967, come ribadito piĂą volte dall’ONU. Netanyahu ha confermato questa decisione aggiungendo, in piĂą occasioni, che non ci sarĂ mai uno stato della Palestina. I coloni, oltre 600.000, che costituiscono la base dei partiti di ultradestra israeliana e che hanno occupato, negli anni, oltre 100.000 ettari di terre palestinesi continuano incessantemente a farlo. Questo nodo è il punto di caduta di tutta la questione: se non si ferma la colonizzazione e se non vengono restituite le terre prese con la forza non potrĂ esserci nessuna possibilitĂ di dare ai palestinesi uno stato e alla pace una vera possibilitĂ . E che questo sia il tema cruciale lo dimostra il rifiuto israeliano di inserire Marwan Barghuti nella lista dei 1700 detenuti palestinesi liberati, l’unica personalitĂ in grado di guidare un nuovo processo politico verso la creazione di una entitĂ statale palestinese.
Quanto sia centrale, in questo contesto, la guerra, più silenziosa ma non meno devastante, dell’espansione dei coloni, lo dimostra l’articolo di Nello Scavo, inviato a Rmallah, pubblicato su Avvenire il 16 ottobre. ‹‹L’arcaica guerra dei dunum si combatte con le pale e i bastoni, sotto la minaccia delle armi da fuoco. Un dunum: mille metri quadrati. L’occupazione giorno dopo giorno è arrivata a controllarne 3,4 milioni, il 60% della Palestina fuori da Gaza. […] Non importa che siano distese pietrose e aride, campagne fertili o distese desertiche. Ė “terra sacra”, promessa e dunque da fare propria. E nessuno tra i conquistatori in fuoristrada e mitraglietta ne percepisce l’illegalità , se dalla loro parte hanno anche ministri coloni, come il responsabile della sicurezza nazionale Ben-Gvir e quello delle finanze, Smotrich›› La tregua è importante ma può essere un primo passo verso la pace solo se, finalmente, dopo oltre 70 risoluzioni di condanna dell’ONU si affronta davvero questo problema. E, aggiungiamo ancora, che riconoscere, ora, lo Stato della Palestina e avviare la restituzione delle terre e delle case ai palestinesi è l’unico modo, concreto, di dare speranza ai palestinesi e indebolire in modo incisivo ogni ricorso al terrorismo. Anche sull’altro versante, quello israeliano, queste scelte potrebbero aiutare a sconfiggere il fondamentalismo delle destre messianiche a far emergere una verità finora ignorata: per quante bombe si possono lanciare non si potrà mai sconfiggere Hamas e l’idea che si possano deportare tutti palestinesi da Gaza, al di là di ogni giudizio politico ed etico, è semplicemente irrealizzabile. A questo punto, dopo il massacro del 7 ottobre di 1200 israeliani compiuto da Hamas e il genocidio del popolo palestinese compiuto da Israele, dovrebbe apparire più chiaro che mai che solo un vero, e faticoso, processo di negoziazione, di reciproco riconoscimento può costruire le fondamenta della pace. Tutto questo è irragionevole di fronte alle ragioni della realpolitik, alle cautele dei difensori dello status quo, agli interessi degli amministratori delle paure e dell’odio. Ma la pace è, per sua natura, irragionevole e offre una diversa grammatica delle relazioni fra persone, culture, popoli. E di quanto ci sia bisogno di questa irragionevole visione dell’umanità e di quanto, per contro, la guerra non risparmi niente e nessuno, lo dimostra quanto accaduto a Greta Thunberg e alle persone che con lei sono state arrestate dall’esercito israeliano mentre, con la Global Sumud Flotilla cercavano di forzare il blocco navale illegale di Gaza imposto da Israele. Sessanta persone sono state messe dentro una gabbia, all’aperto con una temperatura di quaranta gradi. ‹‹Quando qualcuno sveniva, bussavamo alle grate e chiedevamo un medico. Allora arrivavano le guardie e dicevano: vi gasiamo››[1]. Queste parole in bocca ai soldati israeliani- che mettono letteralmente i brividi-raccontano da sole dove può portare l’odio spinto fino a cancellare ogni tratto di umanità nell’altro. Ma così facendo si cancella anche la propria umanità . Lucio Caracciolo, direttore di Limes, nella sua rubrica sul quotidiano La Repubblica, Deviazioni scrive: ‹‹Il piano Trump è come il formaggio svizzero: pieno di buchi che ognuno cercherà di tappare o ignorare a modo suo››.
Da questi buchi possono uscire di nuovo le ragioni dell’odio e della guerra; ecco perché, ora, per consolidare la tregua e spingere verso la pace occorre la spinta potente della partecipazione dei cittadini. Potrà anche apparire ingenuo pensare che la forza della passione civile possa cambiare equilibri politici e stratificazioni di interessi. Eppure è quello che è successo, in tempi lontani e recenti. Perché può succedere? Perché ognuno di noi è un rivolo. Ma un rivolo che ha coscienza di sé può diventare un fiume e i fiumi cambiano i mari.
[1] Le torture su Greta, gli insulti sulla valigia, di Gabriele Crespi, Il Centro, 16 ottobre 2025.
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